venerdì 14 ottobre 2011

Tacito, Historiae, Libro V°


1. Al principio di quel medesimo anno, Cesare Tito, incaricato dal padre di stroncare la rivolta in Giudea, potendo contare su un prestigio militare risalente a quando entrambi erano solo privati cittadini, operava col peso di un'influenza ben più rilevante, ora che province ed eserciti gli testimoniavano a gara il loro attaccamento. E per affermarsi come ancora più grande della sua condizione, si presentava maestoso e audace nelle armi, conquistandosi simpatie col suo tono affabile e con la presenza pressoché continua fra le truppe, nel lavoro e nelle marce, pur senza mai intaccare la sua dignità di comandante. Lo accolsero in Giudea tre legioni, la Quinta, la Decima e la Quindicesima, tutti veterani di Vespasiano. Vi aggiunse la Dodicesima dalla Siria e, da Alessandria, uomini della Ventiduesima e della Terza; lo accompagnavano venti coorti alleate, otto squadroni di cavalleria, i re Agrippa e Soemo, rinforzi del re Antioco e un consistente gruppo di Arabi, animati da sentimenti ostili contro i Giudei, per il solito odio tra popoli vicini, e poi molti altri venuti da Roma e dall'Italia, richiamati ciascuno dalla speranza di accaparrarsi l'animo, ancora libero, del principe. Con queste forze entrò, in buon ordine, nel territorio nemico, esplorando ogni zona e pronto a dare battaglia. Il campo lo pose non lontano da
Gerusalemme.

2. Ma poiché mi accingo a raccontare gli ultimi momenti di quella famigerata città, sembra pertinente richiamarne qui le origini. La tradizione vuole che i Giudei, profughi dall'isola di Creta, si siano insediati nelle ultime estremità della Libia, nel tempo in cui Saturno, cacciato a forza da Giove, abbandonò il suo regno. La prova di ciò si evince dal nome: a Creta esiste il celebre monte Ida, i cui abitanti, detti Idei, furono comunemente chiamati Giudei per un barbarico ampliamento del nome. Secondo alcuni, sotto il regno di Iside, la strabocchevole popolazione dell'Egitto si sarebbe riversata, seguendo la guida di Ierosolimo e di Giuda, nelle terre vicine; non pochi, invece, li ritengono di stirpe etiope, spinti a mutar sedi sotto il re Cefeo, dalla paura e dall'odio. Stando al racconto di altri, sarebbero profughi assiri, gente bisognosa di terra che, impadronitasi di una parte dell'Egitto, ha poi avuto proprie città, coltivando le terre ebraiche e le zone più vicine alla Siria. Per altri ancora i Giudei vanterebbero origini illustri: i Solomi, popolo cantato nelle opere di Omero, avrebbero dato a una città da loro fondata, derivandolo dal proprio, il nome di Ierosolima.

3. Su un punto concorda la maggior parte degli storici: abbattutasi sull'Egitto una pestilenza che deturpava i corpi e recatosi il re Boccori a consultare l'oracolo di Ammone per chiedere un rimedio, ricevette l'ordine di purificare il regno, trasferendo in altro paese gli uomini di quella razza, invisa agli dèi. E così tutta quella gente venne ricercata, raccolta insieme e abbandonata nel deserto. E mentre gli altri, incapaci di agire, piangevano, uno degli esuli, Mosè, li ammonì a non aspettarsi aiuti né di dèi né di uomini, poiché entrambi li avevano abbandonati, ma di affidarsi a lui come a guida venuta dal cielo, perché lui per primo li aveva aiutati a superare le difficoltà presenti. Lo ascoltarono e, ignari di tutto, iniziarono un avventuroso cammino. Ma niente li tormentava quanto la scarsità d'acqua e, ormai vicini a morire, s'accasciavano a terra su tutto il piano, quando una mandria d'asini selvaggi, di ritorno dalla pastura, si ritirò sotto una roccia ombreggiata da alberi. Li seguì Mosè e dal terreno erboso intuì e scoperse una ricca vena d'acqua. Si ripresero. E dopo un cammino ininterrottodi sei giorni, nel settimo, cacciati gli abitanti, occuparono quelle terre in cui fondarono la città e dedicarono il tempio.

4. Mosè, al fine di consolidare per l'avvenire il suo potere su quel popolo, introdusse nuovi riti contrastanti con quelli degli altri mortali. Là sono empie le cose presso di noi sacre e, viceversa, lecito quanto per noi aborrito. Consacrarono in un santuario, immolando un ariete, quasi in spregio ad Ammone, l'immagine dell'animale da cui avevano tratto indicazioni per trovare il cammino e scacciare la sete. Fu sacrificato anche un bue, poiché gli Egiziani adorano Api. Si astengono dalla carne di maiale, a ricordo del flagello, perché li aveva colpiti un tempo la lebbra, a cui quell'animale è soggetto. Commemorano ancor oggi la lunga fame di un tempo con frequenti digiuni e, a testimonianza delle messi frettolosamente raccolte, si mantiene l'uso del pane giudaico senza lievito. Hanno voluto, si dice, come giorno di riposo il settimo, perché esso segnò la fine delle loro fatiche; poi, lusingati dalla pigrizia, dedicarono all'ozio un anno ogni sette. Alcuni ritengono che lo facciano in onore di Saturno, sia per aver ricevuto il fondamento del culto dagli Idei, che sappiamo cacciati insieme a Saturno e fondatori della gente giudaica, sia perché dei sette astri, che regolano il destino dei mortali, quello di Saturno
descrive un'orbita più ampia ed esercita un influsso più determinante, e perché la maggior parte dei corpi celesti tracciano il loro cammino e il loro corso in multipli di sette.

5. Di questi riti, comunque siano stati introdotti, si giustificano con l'antichità. Le altre usanze, sinistre e laide, s'imposero con la depravazione. Infatti tutti i delinquenti, rinnegata la religione dei padri, là portavano contributi di denaro e offerte, per cui s'accrebbe la potenza dei Giudei, ma anche perché fra di loro sono di un'onestà tetragona e immediatamente disposti alla compassione, mentre covano un odio fazioso contro tutti gli altri. Mangiano separati, dormono divisi; benché sfrenatamente libidinosi, si astengono dall'accoppiarsi con donne straniere, ma fra loro l'illecito non esiste. Hanno istituito la circoncisione per riconoscersi con questo segno particolare e diverso. Chi adotta i loro costumi, segue la medesima pratica, e la prima cosa che imparano è disprezzare gli dèi, rinnegare la patria, spregiare genitori, figli, fratelli. Sta loro a cuore la crescita della popolazione; è infatti proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito e ritengono eterne le anime dei caduti in battaglia o vittime di supplizi: da qui la loro disponibilità alla procreazione e il disprezzo della morte.
Seppelliscono, non cremano i cadaveri, secondo l'uso e con le stesse cerimonie apprese dagli Egizi; riservano la stessa cura ai defunti e condividono la stessa credenza sul mondo degli inferi, e ne hanno una contraria sulla realtà celeste. Gli Egizi adorano moltissimi animali e le loro raffigurazioni in forma composita; i Giudei concepiscono un unico dio e solo col pensiero; profanazione è per loro costruire con materia caduca immagini divine in sembianza umana, perché l'essere supremo ed eterno non può subire una rappresentazione ed è senza fine. Per questo non pongono simulacri di dèi nelle loro città e tanto meno nei loro templi; né riservano tale forma di adorazione per i loro re, né di onore ai Cesari. Ma poiché i loro sacerdoti cantavano accompagnandosi a flauti e timpani, poiché si cingevano le tempie di edera e nel loro tempio venne rinvenuta una vite d'oro, taluni hanno pensato che venerassero il padre Libero, conquistatore dell'Oriente, ma con riti
totalmente diversi: in effetti, Libero ha istituito riti all'insegna della festa e della gioia, mentre le pratiche giudaiche sono assurde e cupe.

6. Il loro territorio confina a oriente con l'Arabia, a mezzogiorno si stende l'Egitto, a occidente i Fenici e il mare, verso settentrione s'affacciano per lungo tratto su un lato della Siria. Gli uomini hanno corpi sani e resistenti alla fatica. Rare le piogge, fertile il suolo; hanno messi come le nostre e in più il balsamo e le palme. Nei palmeti s'innalzano alberi slanciati e imponenti; il balsamo è arbusto piccolo e quando la linfa gonfia i suoi rami, se vi accosti il coltello, le vene dell'arbusto ne risentono per la paura: si aprono con una scheggia di pietra o con un coccio e il liquido è impiegato per usi medicinali. La più alta montagna che si eleva è il Libano: cosa straordinaria a dirsi, fra terre tanto calde, è ombroso e coperto di nevi perenni; è lui che alimenta e ingrossa il fiume Giordano. Ma il Giordano non sfocia nel mare, bensì attraversando, senza perdersi, un primo e un secondo lago, nel terzo finisce. Quest'ultimo, di dimensioni enormi e simile a un mare, ma di sapore più digustoso e dalle esalazioni pestilenziali per i rivieraschi, non è mosso dal vento né consente la vita a pesci o
uccelli acquatici. Le sue onde inerti sostengono, come fossero solide, quanto vi si getti sopra, e quindi restano a galla tutti, capaci o no che siano di nuotare. In una certa stagione dell'anno getta fuori bitume, raccolto con una tecnica insegnata, come le altre attività, dall'esperienza. È un liquido nero allo stato naturale che, sparso d'aceto, si rapprende e galleggia. Chi è addetto alla raccolta lo prende con le mani e lo issa sul ponte del natante; qui lo si lascia colare da sé e quando il battello è pieno, si interrompe il flusso. Ma non lo si può scindere tagliandolo col bronzo o col ferro; fugge davanti al sangue o a un panno impregnato di quel sangue, di cui le donne ogni mese si liberano. Così secondo gli autori antichi; ma i conoscitori dei posti riferiscono che le masse galleggianti di bitume sono spinte o trascinate a braccia sulla riva e poi, disseccatesi col calore della terra e la calura del sole, le fanno a pezzi con scuri e cunei, come fossero travi o pietre.

7. Non lontano è la pianura, che dicono fertile un tempo, abitata da grandi città, bruciate poi dal fulmine; parlano di tracce residue e che la terra stessa, nel suo aspetto disseccato, non abbia più la forza di produrre. La vegetazione spontanea, infatti, o quella seminata dall'uomo, sia erba o fiore, appena normalmente sviluppata, annerisce, si atrofizza e si dissolve come in cenere. Da parte mia, come potrei ammettere che città un tempo stupende siano bruciate per il fuoco celeste, così credo che la terra s'infetti per le esalazioni del lago, che l'aria sovrastante si corrompa e quindi imputridiscano messi e frutta, perché egualmente malsani il suolo e il cielo. Il fiume Belio svanisce anch'esso nel mare di Giudea e attorno alla sua foce si raccoglie una sabbia che, cotta con l'aggiunta di nitro, diventa vetro. Poco estesa è quella spiaggia ma, per chi cava la sabbia, essa è inesauribile.

8. Gran parte della Giudea è disseminata di borgate; hanno però anche città. La capitale è Gerusalemme, col suo tempio immensamente ricco. Una prima cerchia di mura chiude la città, una seconda la reggia; infine il tempio, cinto da una più interna. I Giudei potevano accedere fino alle porte; la soglia era vietata a tutti, eccetto ai sacerdoti. Finché l'Oriente fu soggetto agli Assiri, ai Medi, ai Persiani, i Giudei furono la parte più spregiata dei loro sudditi; quando prevalsero i Macedoni, il re Antioco tentò di estirpare il loro fanatismo, introducendo i costumi greci, ma la guerra contro i Parti gli impedì di incivilire quella gente sconcia; infatti, proprio allora si era ribellato Arsace. Allora i Giudei, profittando del declino dei Macedoni e della potenza non ancora affermata dei Parti - e i Romani erano lontani - si diedero propri re. Questi, cacciati dalla volubilità del popolo, ripresero il dominio con le armi, non indietreggiando di fronte a fughe di cittadini, a distruzioni di città, a uccisioni di fratelli, di spose, di genitori e di fronte agli altri misfatti propri dei re, e tennero viva quella superstizione, perché assegnavano alla dignità sacerdotale il ruolo di sostenere la propria potenza.

9. Primo fra i Romani, Gneo Pompeo domò i Giudei e, per diritto di vittoria, entrò nel tempio. Si seppe, allora, che non vi era alcuna immagine di divinità, che il luogo era vuoto e che il santuario tanto segreto non nascondeva nulla. Le mura di Gerusalemme furono abbattute, ma il tempio rimase. Più tardi, al tempo delle guerre civili fra noi Romani, dopo che quelle province finirono sotto il controllo di Marco Antonio, il re dei Parti Pacoro si impadronì della Giudea, ma venne ucciso da Publio Ventidio e i Parti furono ricacciati oltre l'Eufrate; Gaio Sosio allora assoggettò i Giudei. Il regno, affidato da Antonio a Erode, subì ingrandimenti per merito di Augusto, dopo la sua vittoria. Morto Erode, un certo Simone usurpò, senza attendere la volontà dell'imperatore, il nome di re. Costui venne giustiziato da Quintilio Varo, allora governatore della Siria; il popolo fu ridotto all'obbedienza e il regno tripartito fra i figli di Erode. Sotto Tiberio ci fu pace; ma, in seguito all'ordine di Caligola di collocare nel tempio una sua statua, preferirono prendere le armi e solo la sua morte troncò la rivolta. Morti i re o ridotti a un potere limitato, Claudio affidò la provincia di Giudea a cavalieri romani o a liberti. Uno di questi, Antonio Felice, esercitò i poteri regali con animo da servo, fra violenze e arbitrii di ogni tipo; sposò Drusilla, nipote di Cleopatra e Antonio, sicché era progenero di quell'Antonio di cui Claudio era nipote.

10. Tuttavia i Giudei pazientarono fino al procuratore Gessio Floro: con lui scoppiò la guerra. Nei suoi tentativi di soffocarla, il legato di Siria Cestio Gallo li affrontò in diversi scontri con alterna, ma più spesso avversa, fortuna. Come questi ebbe a morire, o per destino o per i crucci patiti, Vespasiano, inviato da Nerone, grazie alla sua fortuna, alla fama e a ottimi collaboratori, nel giro di due estati, occupava col suo esercito vincitore tutto il piano e tutte le città, tranne Gerusalemme. L'anno seguente, tutto occupato dalla guerra civile, passò tranquillo per i Giudei. Garantita la pace in Italia, ripresero anche i problemi di politica estera. Il risentimento cresceva per il fatto che solo i Giudei non avevano ceduto; ma nel contempo sembrava utile che alla testa degli eserciti rimanesse Tito, per poter far fronte a tutte le evenienze del nuovo principato.

11. Posto dunque il campo, come s'è detto, davanti alle mura di Gerusalemme, Tito presentò le sue legioni pronte alla battaglia. I Giudei si schierarono proprio a ridosso delle mura, decisi ad avanzare in caso di successo, ma sicuri della ritirata, se respinti. Li affrontò la cavalleria, col sostegno di truppe leggere, in un combattimento d'esito incerto; poi il nemico ripiegò e, nei giorni successivi, s'accendevano di frequente scontri davanti alle porte, finché le continue perdite li ricacciarono dentro le mura. I Romani si accinsero all'assalto, parendo indegno attendere la resa dei nemici per fame e volevano sfidare il pericolo, alcuni per coraggio, molti per fierezza e brama di ricompense. A Tito, poi, s'affacciava alla mente Roma con tutte le sue ricchezze e i suoi piaceri; e gli pareva di tardare a goderli, se Gerusalemme non fosse caduta al più presto. Ma la città, già in posizione ostica, era difesa da un sistema di solide fortificazioni, bastevole a proteggerla tranquillamente anche in pianura. Infatti, i suoi due colli alti e scoscesi erano chiusi da mura volutamente oblique e ad angoli rientranti, perché i fianchi degli assalitori restassero scoperti e sotto tiro. Il lato esterno della roccia era a picco
e le torri, alte sessanta piedi, dove aiutava la costa del monte, salivano a centoventi nelle depressioni, sicché, viste da lontano, davano la sorprendente impressione d'essere di eguale altezza. Altre mura all'interno attorniavano la reggia e su tutte spiccava per altezza la torre Antonia, così chiamata da Erode in onore di Marco Antonio.

12. Sorgeva il tempio a mo' di rocca, con mura particolari, che avevano richiesto maggiore fatica e abilità delle altre; il porticato avvolgente il tempio costituiva di per sé una valida difesa. Potevano disporre di una fonte d'acqua perenne, di sotterranei nella montagna, di piscine e cisterne per l'acqua piovana. L'atipicità dei costumi aveva fatto prevedere ai fondatori guerre frequenti e, quindi, tutto era attrezzato per un assedio anche lunghissimo; e molto avevano suggerito la paura e l'esperienza dopo l'espugnazione operata da Pompeo. Profittando dell'avidità del regime claudiano, acquistarono il diritto di costruire fortezze e così innalzarono, in tempo di pace, mura come per una guerra. E la popolazione s'era ingrossata, per il riversarsi di una massa di gente dalle altre città distrutte; là avevano, infatti, trovato rifugio i più irriducibili avversari di Roma e lo spirito ribelle vi era più diffuso. Tre i capi, altrettanti gli eserciti: Simone presidiava la cinta esterna, la più ampia; Giovanni [chiamato anche Bargiora] il centro della città ed Eleazaro il tempio. Giovanni e Simone traevano la loro forza dal gran numero di armati, Eleazaro dalla posizione: ma non si contavano, fra loro, scontri, tradimenti, incendi, e le fiamme s'erano divorate una gran scorta di frumento. Più tardi Giovanni, fingendo di offrire un sacrificio, manda uomini a massacrare Eleazaro e i suoi, impadronendosi così del tempio. La città si divise allora in due fazioni, finché, con l'avvicinarsi dei Romani, la guerra esterna riportò la concordia.

13. S'eran verificati dei prodigi; prodigi che quel popolo, schiavo della superstizione ma avverso alle pratiche religiose, non ha il potere di scongiurare, con sacrifici e preghiere. Si videro in cielo scontri di eserciti e sfolgorio di armi e, per improvviso ardere di nubi, illuminarsi il tempio. S'aprirono di colpo le porte del santuario e fu udita una voce sovrumana annunciare: «Gli dèi se ne vanno!» e intanto s'avvertì un gran movimento, come di esseri che partono. Ma pochi ricavavano motivi di paura; valeva per i più la convinzione profonda di quanto contenuto negli antichi scritti dei sacerdoti, che proprio in quel tempo l'Oriente avrebbe mostrato la sua forza e uomini venuti dalla Giudea si sarebbero impadroniti del mondo. Questa oscura profezia annunciava Vespasiano e Tito, ma il volgo, come sempre sollecitato dalla propria attesa, incapace di fare i conti con la realtà anche nei momenti più difficili, interpretava a suo favore un destino così glorioso. La massa degli assediati, d'ogni età e dei due sessi, maschi e femmine, ascendeva, come ci hanno confermato, a seicentomila. Chiunque poteva imbracciare armi; e ad affrontare i rischi eran pronti più di quanto il numero comportasse. Eguale determinazione vivevano uomini e donne e, nella prospettiva d'esser costretti a mutar sede, la vita li spaventava più della morte. Contro questa città e questa gente, poiché la posizione non consentiva un assalto o improvvisi colpi di mano, Cesare Tito decise di combattere impiegando terrapieni e tettoie. Ripartisce i compiti fra le legioni e gli scontri furono sospesi, finché non vennero affrontati con tutti i mezzi escogitati dagli antichi e dai moderni, per espugnare la città.

14. Sull'altro fronte, Civile, ricostruito in Germania l'esercito dopo la sconfitta patita nel paese dei Treviri, si accampò presso Castra Vetera, forte della posizione e con lo scopo di rinsaldare la fiducia dei barbari, nel ricordo dei successi là riportati. Lo segue Ceriale, con gli effettivi raddoppiati dopo l'arrivo della Seconda, della Tredicesima e della Quattordicesima legione; i reparti di fanteria e cavalleria ausiliaria, già in precedenza richiamati, avevano affrettato la marcia dopo la vittoria. Nessuno dei due comandanti amava temporeggiare, ma li teneva distanti una grande distesa di campi dalla natura paludosa; inoltre, Civile aveva costruito uno sbarramento traversale sul Reno, perché l'acqua del fiume, ostacolata, rifluisse ad allagare l'area adiacente. Questa la configurazione del terreno, insidiosa per la presenza di bassifondi sconosciuti, e a noi decisamente sfavorevole: i soldati romani, pesantemente armati, non s'arrischiano a nuotare, mentre l'armamento leggero e l'alta statura favoriscono i Germani, già buoni conoscitori dei fiumi, nel tenersi oltre il pelo dell'acqua.

15. Provocati dunque dai Batavi, i più animosi dei nostri accettano lo scontro, per trovarsi però, subito dopo, in una situazione angosciosa, perché le paludi profonde inghiottivano armi e cavalli. I Germani si muovevano agilmente attraverso i guadi a loro ben noti, evitando in genere lo scontro frontale, per attaccarli ai fianchi o alle spalle. Mancavano gli scontri ravvicinati, tipici di una battaglia campale, ma vagavano in mezzo alle onde, come in un combattimento navale, oppure se capitavano in un punto solido, vi si puntellavano con tutto il peso del corpo, afferrandosi, a reciproca rovina, feriti e sani, quanti sapevano e quanti non sapevano nuotare. Se rapportate a quella caotica confusione, le perdite non furono gravi, perché i Germani, non osando uscire dalle paludi, ritornarono al loro campo. L'esito del combattimento spinse i due comandanti, per motivi diversi, ad affrontarsi in uno scontro decisivo. Civile voleva trar profitto dalla buona sorte, Ceriale cancellare lo scacco: imbaldanziti i Germani dal successo, pungolati dalla vergogna i Romani. Passarono i barbari la notte tra canti e grida festose; cupi d'ira e in minacciosi propositi i nostri.

16. Il mattino seguente Ceriale forma l'intero fronte con la cavalleria e la fanteria ausiliaria, mentre dispone in seconda fila le legioni, trattenendo con sé i reparti scelti, per ogni emergenza. Civile lo fronteggia con l'esercito dispiegato non in linea, ma in formazione a cuneo: i Batavi e i Cugerni a destra, i Transrenani dislocati a sinistra nella parte vicina al fiume. Parole di incoraggiamento rivolgono i capi non a tutti i soldati adunati assieme, ma ai singoli reparti, man mano che prendevano posto. Ceriale s'appella all'antica gloria del popolo romano, alle vittorie passate e recenti, perché sterminino per sempre quel perfido e vile nemico, già prima battuto; non di battaglia si trattava, ma di vendetta. Avevano combattuto, e di recente, in pochi contro molti eppure avevano disperso i Germani, la vera forza del nemico; restavano ora quanti avevano in cuore la fuga e le ferite sulla schiena. E trovava particolari parole di sprone per ciascuna legione, chiamando gli uomini della Quattordicesima conquistatori della Britannia, ricordando che, se Galba era diventato principe, lo doveva al peso della Sesta legione; che i legionari della Seconda avrebbero consacrato allora, sul campo, le nuove insegne e l'aquila nuova. Poi, muovendosi a cavallo davanti a tutti, tendeva le braccia verso l'esercito germanico, perché riscattassero la propria riva, il proprio accampamento col sangue nemico. Si levò un generale festoso grido da chi smaniava di combattere dopo una lunga pace e da chi, stanco di guerra, sognava la pace; e speravano per l'avvenire premi e riposo.

17. Neppure Civile dispose i suoi in silenzio, ma additava proprio il terreno della battaglia a testimonianza del loro valore: stavano Germani e Batavi sulle orme della loro gloria, calcando ceneri e ossa di legioni. Ovunque i Romani volgessero lo sguardo, si trovavano davanti la loro prigionia, il disastro subito, solo immagini funeste. E nessuna paura per le vicende della battaglia dei Treviri: là i Germani s'eran trovati ad avere contro la loro stessa vittoria, quando, lasciate le armi, si riempivano le mani di preda; ma poi c'eran stati solo successi, e rovesci per il nemico. A quanto l'abilità di un capo doveva provvedere, egli aveva provveduto: campi allagati, ma a loro ben noti, e paludi fatali per il nemico. Il Reno e gli dèi della Germania stavano davanti a loro: fidando dunque in essi combattessero, memori delle mogli, dei genitori, della patria. Quel giorno sarebbe stato o il più glorioso di quelli dei loro avi o il più vergognoso agli occhi dei posteri. Salutarono quelle parole (così usano esprimere il loro consenso) con un fragore di armi cozzanti e una danza di guerra. Poi cominciarono la battaglia con lancio di sassi, di palle e di altri oggetti simili, ma i nostri soldati non si avventuravano nella palude, benché i Germani li provocassero per attirarveli.

18. Esauriti i proiettili e accendendosi gli scontri, i nemici caricano con maggior furia: le loro lunghissime aste, manovrate da corpi giganteschi, colpivano, a distanza, i nostri che vacillavano e cedevano; e intanto, utilizzando lo sbarramento gettato, come s'è detto, attraverso la corrente del Reno, una colonna di Brutteri lo passò a nuoto. Seguì un momento di panico e il fronte delle coorti alleate arretrava, ma subentrarono le legioni e, bloccato il vigoroso assalto nemico, ristabiliscono l'equilibrio. Intanto un Batavo disertore, presentatosi a Ceriale, gli garantisce di sorprendere il nemico alle spalle, spostando la cavalleria all'estremità della palude, dove il terreno è solido e i Cugerni, cui era toccata la vigilanza, facevano pessima guardia. Due squadroni là inviati col disertore sorprendono e accerchiano il nemico. Quando le grida segnalarono il fatto, le legioni caricarono sul fronte e i Germani, ributtati indietro, fuggivano verso il Reno. Quel giorno si sarebbe conclusa la guerra, se la flotta romana si fosse affrettata a inseguirli; neppure la cavalleria poté star loro addosso: si mise improvvisa a scrosciare la pioggia e ormai intanto calava la notte.

19. Il giorno seguente, la Quattordicesima legione viene mandata a raggiungere Gallo Annio nella Germania superiore; la Decima, proveniente dalla Spagna, la rimpiazzò nell'esercito di Ceriale. Civile ricevette il rinforzo dei Cauci; tuttavia, non s'arrischiò a difendere con le armi la città dei Batavi, ma, arraffato quanto poteva trasportare e bruciato il resto, si ritirò nell'isola, ben sapendo che mancavano le imbarcazioni per costruire il ponte e che l'esercito romano non poteva attraversare il fiume in altro modo; non solo, ma distrusse anche la diga costruita da Druso Germanico, liberando il Reno che, per la naturale pendenza dell'alveo, si precipitò, travolgendo ogni ostacolo, verso la Gallia. In tal modo, come se il fiume fosse stato deviato, restava, tra l'isola e i Germani, un filo d'acqua così esile da dar l'impressione di una terraferma continua. Passarono il Reno anche Tutore e Classico e centotredici senatori treviri, fra i quali Alpinio Montano, che in precedenza ricordammo quale inviato di Antonio Primo nelle Gallie. Lo accompagnava il fratello Decimo Alpinio; e con loro tutti gli altri, facendo leva sulla compassione e sui doni distribuiti, ottennero nuovi aiuti militari da quelle popolazioni avide di pericoli.

20. Tanto era lontana dall'essere finita la guerra, che Civile poté assalire in un solo giorno con quattro colonne separate i concentramenti romani della fanteria ausiliaria, della cavalleria e delle legioni: la Decima legione ad Arenaco, la Seconda a Batavoduro, e a Grinnes e Vada i campi dei fanti e dei cavalieri ausiliari. Aveva diviso le forze in modo che lui e Verace, figlio di una sua sorella, e Classico e Tutore guidassero ciascuno proprie truppe; e ciò, non perché sicuro del successo su tutti i fronti, ma nella convinzione che, rischiando molti attacchi, da una parte o dall'altra gli avrebbe arriso il successo. Sperava anche di poter sorprendere Ceriale in uno dei suoi tanti spostamenti, operati senza la debita vigilanza e provocati dalle molteplici segnalazioni che gli arrivavano. Quelli cui era toccato il campo della Decima legione, ritenendo operazione rischiosa un assalto diretto contro l'obiettivo, si gettarono sugli uomini usciti per tagliare legna e uccisero il prefetto del campo, cinque centurioni di grado più elevato e pochi soldati; gli altri si difesero dietro i trinceramenti. Intanto, un gruppo di Germani tentava di abbattere un ponte i cui lavori erano in corso a Batavoduro: la notte interruppe quello scontro d'esito incerto.

21. Maggiori i rischi corsi a Grinnes e a Vada. Vada subiva l'attacco di Civile, Grinnes di Classico. E non c'era verso di fermarli: già erano caduti i migliori e tra questi Brigantico, comandante d'uno squadrone, che già abbiamo ricordato come fedele ai Romani e nemico dichiarato dello zio materno Civile. Ma al sopraggiungere di Ceriale con una colonna di cavalieri scelti, si rovesciarono le sorti: i Germani sono ributtati a precipizio verso il fiume. Civile, riconosciuto mentre tentava di bloccare la fuga dei suoi e bersagliato di frecce, abbandonò il cavallo per buttarsi a nuoto oltre il fiume. Identico scampo trovò Verace; alcune barche accostate alla riva portarono dall'altra parte Tutore e Classico. Neppure in quell'occasione la flotta romana presenziò alla battaglia, nonostante gli ordini: lo impedirono la paura e la ciurma dispersa per altri servizi. È pur vero che Ceriale concedeva poco tempo per eseguire gli ordini, rapidissimo nelle decisioni e brillante nello sfruttare il successo: aveva dalla sua la fortuna, anche se poco curava la tecnica militare. E pochi giorni dopo evitò il rischio di cader prigioniero, ma non la vergogna di quell'episodio.

22. Portatosi a Novesio e a Bonna per ispezionare la costruzione degli accampamenti destinati alle legioni quali loro sede invernale, rientrava alla base navigando sul fiume con la scorta in disordine e con inadeguati servizi di vigilanza. Se ne accorsero i Germani e gli tesero una trappola. Scelsero una notte nuvolosa e buia e, affidandosi alla corrente del fiume, penetrarono, senza incontrare opposizione, all'interno delle difese del campo. Inizialmente il massacro venne favorito dal ricorso a uno stratagemma: tagliavano le funi delle tende e trucidavano i soldati avvoltolati in esse. Un altro gruppo provocava disordine tra la flotta, agganciava con ramponi le imbarcazioni e le trascinava via. E come prima s'eran mossi in silenzio, per non essere scoperti, così, dato il via al massacro, levavano ovunque grida terribili, per aumentare il panico. I Romani, destatisi tra le ferite, cercano le armi, si precipitano nei passaggi, pochi in assetto di guerra e i più col vestito arrotolato attorno a un braccio e la spada in pugno. Il comandante, mezzo addormentato e seminudo, scampò per un errore del nemico: infatti, trascinavano via la nave ammiraglia, riconoscibile dalla bandiera del comando, pensando di trovarvi il comandante. Ma Ceriale aveva passato la notte altrove, per godersi, come molti credettero, una donna ubia, Claudia Sacrata. Le sentinelle giustificavano le proprie responsabilità a spese della dignità del comandante: avrebbero avuto l'ordine di non far rumore per non disturbarlo; avendo, perciò, sospeso i segnali e i richiami a voce, erano piombati anch'essi nel sonno. Era ormai pieno giorno, quando i nemici tornarono alle loro basi con le navi catturate; tirarono sul fiume Lupia la trireme ammiraglia e ne fecero dono a Velleda.

23. Civile si lasciò sedurre dall'idea di organizzare una parata navale: equipaggia tutte le navi di cui disponeva a due o a un solo ordine di remi, con l'aggiunta di un gran numero di barconi, capaci di trenta o quaranta uomini ciascuno, armati come le liburniche; le scialuppe catturate ai Romani erano sospinte, con effetto spettacolare, da mantelli variopinti tesi al posto delle vele. Sceglie un ampio bacino, quasi un braccio di mare, là dove la foce della Mosa riceve la corrente del Reno e la versa nell'Oceano. Motivo di questi spiegamenti di forze navali, oltre alla vanità innata di quelle popolazioni, era di intercettare, seminando paura, i convogli di viveri provenienti dalla Gallia. Ceriale, più sorpreso che intimorito, fa avanzare la propria flotta, inferiore di numero, ma più efficiente per l'abilità dei rematori, la maestria dei piloti e la stazza delle navi. Questa aveva il favore della corrente, quella del vento. Si incrociarono con un accenno di lanci di proiettili leggeri e si separarono. Civile non osò oltre e si ritirò al di là del Reno. Ceriale saccheggiò brutalmente l'isola dei Batavi, lasciando intatti – pratica ben nota ai comandanti - le terre e gli immobili di Civile. Intanto, volgendo l'autunno alla fine e per la frequenza delle piogge equinoziali, il fiume straripò su quell'isola bassa e paludosa, rendendola simile a uno stagno. Per di più, non arrivavano né la flotta, né i rifornimenti, e gli accampamenti, disposti in piano, erano sottoposti all'urto della corrente.

24. Che in quel momento le legioni potessero essere distrutte e che proprio questo volessero i Germani, ma che furono da lui abilmente dissuasi, erano affermazioni fatte in seguito da Civile. Affermazioni del resto credibili, dato che pochi giorni dopo seguì la resa. Infatti Ceriale, mentre prospettava, attraverso intermediari segreti, la pace ai Batavi e il perdono a Civile, invitava Veleda e i suoi intimi collaboratori a determinare una svolta nel corso della guerra, già costata loro pesanti sconfitte, meritandosi con tempestive scelte la riconoscenza del popolo romano: i Treviri erano stati sgominati, gli Ubii sottomessi di nuovo, ai Batavi tolta la patria; l'amicizia di Civile aveva procurato loro solo ferite, fughe, lutti. Egli, esule e ramingo, costituiva un peso per chi lo accoglieva; quanto ai Germani, si erano già resi abbastanza colpevoli, per aver tante volte oltrepassato il Reno. Insistendo in altri tentativi, ci sarebbe stata chiaramente da una parte il torto e la colpa, dall'altra la vendetta, appoggiata dagli dèi.

25. Era un misto di minacce e di promesse. Una volta scalzato l'appoggio fedele dei popoli d'oltre Reno, cominciarono a serpeggiare anche tra i Batavi discorsi siffatti: basta con questa lotta disastrosa! Era impossibile per un popolo solo liberare il mondo intero dalla schiavitù. Uccidere e bruciare legioni era servito unicamente a richiamarne altre, più numerose e più forti. Se eran scesi in guerra per Vespasiano, Vespasiano era ormai al potere; ma se intendevano provocare con le armi il popolo romano, quanta parte del genere umano rappresentavano i Batavi? Si guardino i Reti e la gente del Norico e le pesanti tassazioni imposte a tutti gli altri alleati: da loro, invece, non si pretendevano tributi, ma solo valore e uomini. Era la condizione più vicina alla libertà. E dovendo scegliere un padrone, meglio i prìncipi romani che le donne germaniche! Queste le parole del popolo; più aspri invece i commenti dei capi: erano i rancori di Civile ad averli trascinati alla guerra; lui, Civile, s'era rifatto delle sventure domestiche con la rovina del suo popolo; gli dèi s'eran schierati contro i Batavi dal giorno dell'assedio alle legioni e dell'assassinio dei legati, da quando avevano scelto una guerra necessaria a una sola persona, ma funesta a tutti loro. Ormai s'era toccato il fondo: non restava che tornare a rinsavire e dimostrare il pentimento, sacrificando la testa del colpevole.

26. Civile si rese conto di questo nuovo orientamento e decise di prendere l'iniziativa, non solo perché stanco di sventure, ma anche sperando d'aver salva la vita, considerazione che spesso spezza gli animi grandi. Chiede un incontro con Ceriale. Un ponte sul fiume Nabalia viene tagliato a metà e i due comandanti avanzano fino alle due estremità opposte. Così comincia Civile: «Se mi difendessi davanti a un legato di Vitellio, egli non dovrebbe né perdono alla mia condotta, né fiducia alle mie parole: eravamo nemici in tutto; egli ha cominciato le ostilità, io le ho aggravate. Per Vespasiano, invece, il mio rispetto è antico e, quand'era un cittadino privato, ci chiamavamo amici. Lo sapeva Antonio Primo, dalle cui lettere fui trascinato alla guerra, per impedire che le legioni germaniche e la gioventù gallica varcassero le Alpi. E ciò a cui Antonio mi esortava per lettera, Ordeonio Flacco me lo ripeteva a viva voce; ho preso le armi in Germania come Muciano in Siria, Aponio in Mesia, Flaviano in Pannonia [...]