giovedì 20 ottobre 2011

Il libro della Genesi alla lettera di sant'Agostino, libro I°


LIBRO PRIMO

Senso letterale e senso figurato nella sacra Scrittura.

1. 1. La sacra Scrittura nel suo complesso è divisa in due parti, come indica il Signore quando afferma che uno scriba istruito nelle cose del Regno di Dio è come un padre di famiglia che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, come si chiamano anche i due Testamenti. In tutti i Libri sacri si devono poi distinguere le verità eterne che vi sono inculcate e i fatti che vi sono narrati, gli eventi futuri che vi sono predetti, le azioni che ci si comanda o consiglia di compiere. Rispetto dunque al racconto dei fatti sorge la questione se tutto dev'essere inteso in senso figurato oppure si deve affermare e sostenere anche l'autenticità dei fatti attestati. Poiché nessun cristiano oserà affermare che nessun passo [della Scrittura] dev'essere inteso in senso figurato qualora consideri attentamente le parole dell'Apostolo: Tutte queste cose però accaddero loro in figura, e ciò che sta scritto nella Genesi: E saranno due in una sola carne, ch'egli dichiara essere una gran verità misteriosa in rapporto a Cristo e alla Chiesa.

Significato di "principio", "cielo e terra".

1. 2. Se dunque la Scrittura dev'essere interpretata in entrambi i predetti sensi, in qual senso, all'infuori di quello allegorico, è stato detto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra? Forse "all'inizio del tempo" o perché furono fatti "prima di tutte le cose" oppure "nel Principio, ch'è il Verbo di Dio, suo unico Figlio"? Inoltre, in qual modo potrebbe dimostrarsi che Dio crea esseri mutevoli e temporali senza subire alcun mutamento di se stesso? E che cosa potrebbe essere indicato con le parole "cielo" e "terra"? Ha forse il nome di "cielo e terra" la creatura spirituale e corporale o soltanto quella corporale? Bisognerebbe allora pensare che la Scrittura in questo libro ha passato sotto silenzio la creatura spirituale e ha usato l'espressione cielo e terra per indicare l'insieme delle creature corporali, sia quelle superiori che quelle inferiori? O forse è stata chiamata "cielo e terra" la materia informe delle une e delle altre creature: cioè da una parte la vita spirituale, quale può essere in sé prima di volgersi verso il Creatore - proprio grazie a questo suo volgersi verso il Creatore essa viene formata e resa perfetta, ma rimane informe se non si volge verso di Lui -; da un'altra parte la vita corporale, se fosse possibile concepirla interamente priva delle proprietà corporee che appaiono nella materia formata, quando i corpi hanno già le forme specifiche percettibili con la vista o con un altro senso.

Che significa "cielo e terra".

1. 3. Oppure per "cielo" si deve intendere forse la creatura spirituale, perfetta e beata per sempre fin dal primo istante della sua creazione, per "terra" al contrario la materia corporea ancora imperfetta? Infatti la terra - è detto - era invisibile e confusa e le tenebre erano sopra l'abisso, parole con cui [la Scrittura] sembra indicare lo stato informe della sostanza corporea. O forse con queste ultime parole della frase viene indicato anche lo stato informe di entrambe le creature, cioè della corporea, per il fatto ch'è detto: La terra era invisibile e confusa; di quella spirituale, invece, per il fatto ch'è detto: Le tenebre erano sopra l'abisso? In questo caso, l'abisso tenebroso sarebbe un'espressione metaforica per denotare la natura della vita ch'è informe, se non si volge verso il Creatore, poiché solo in questo modo può assumere la forma per cessare d'essere abisso, e può venire illuminata per cessare d'essere tenebrosa. Inoltre, in qual senso è detto: Le tenebre erano sopra l'abisso? Forse perché non c'era ancora la luce? Poiché, se la luce fosse esistita, sarebbe stata sopra l'abisso e, per così dire, diffusa sulla sua superficie: ciò avviene nella creatura spirituale quando si volge alla luce immutabile e incorporea che è Dio.

Creazione della luce.

2. 4. Inoltre, in qual modo Dio disse: Vi sia la luce? Nel tempo o nell'eternità del Verbo? Ma se lo disse nel tempo, lo disse anche nel mutamento. In qual modo, allora, si potrebbe pensare che Dio pronunci questa frase se non mediante una creatura? Egli infatti è immutabile. Ma se Dio disse: Vi sia la luce mediante una creatura, in qual modo la luce sarebbe la prima creatura, se già esisteva un'altra creatura per mezzo della quale Dio potesse dire: Vi sia la luce? O forse la luce non sarebbe la prima creatura poiché era già stato detto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra? Inoltre, si sarebbe potuto pronunciare l'ordine: Vi sia la luce mediante una creatura celeste nel tempo e nel mutamento? Se la cosa sta così, questa luce fisica che noi vediamo con gli occhi del corpo, Dio l'ha fatta dicendo: Vi sia la luce mediante una creatura spirituale, creata già prima da lui quando nel principio creò il cielo e la terra, in modo che, in virtù d'un interno e misterioso impulso di tale creatura impressole da Dio, questi avrebbe potuto dire: Vi sia la luce?

La voce di Dio nel creare la luce.

2. 5. O forse la voce di Dio risonò anche materialmente allorché disse: Vi sia la luce, allo stesso modo che risonò materialmente la voce di Dio quando disse: Tu sei il Figlio mio prediletto? E ciò [avvenne forse] per mezzo d'una creatura fisica che Dio avrebbe creata quando nel principio creò il cielo e la terra, prima che vi fosse la luce, che fu creata quando risonò questa voce? Ma se la cosa sta così, in quale lingua risonò questa voce allorché Dio disse: Vi sia la luce, dato che non c'era ancora la diversità delle lingue avvenuta in seguito durante la costruzione della torre dopo il diluvio? Qual era quell'unica e sola lingua, in cui Dio pronunziò: Vi sia la luce? E chi era colui al quale potesse una tale parola esser rivolta e che avrebbe dovuto ascoltarla e capirla? O non è forse, questa, un'idea e un'ipotesi illogica e carnale?

La voce di Dio e il Verbo di Dio nel creare la luce.

2. 6. Che diremo dunque? Conviene forse che per "voce di Dio" s'intenda il senso espresso dalla voce che dice: Vi sia la luce? e non lo stesso suono materiale? Inoltre la stessa voce non appartiene forse alla natura del suo Verbo di cui è detto: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio? Quando infatti la Scrittura afferma che: Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, dimostra assai chiaramente che anche la luce fu fatta per mezzo di Lui, allorché Dio disse: Vi sia la luce. Se la cosa sta così, la parola: Vi sia la luce, detta da Dio, è eterna, poiché il Verbo di Dio, Dio in Dio, Figlio unico di Dio, è coeterno col Padre, sebbene la creatura, fatta per mezzo di quella Parola di Dio pronunciata nel suo Verbo eterno, sia temporale. Anche se, quando noi diciamo "quando" e "un giorno", queste sono parole relative al tempo, tuttavia, nel Verbo di Dio, è fissato dall'eternità "quando" una cosa dev'esser fatta e viene fatta "allorquando" è fissato che si sarebbe dovuta fare per mezzo del Verbo, in cui non c'è né "quando" né "un giorno" poiché il Verbo è il "Tutto eterno".

Natura della luce creata da Dio.

3. 7. Ma cos'è propriamente la luce che fu creata? È forse qualcosa di spirituale o di materiale? Se infatti è spirituale, essa potrebbe essere la prima creatura resa ormai perfetta da questa Parola, mentre dapprima fu chiamata "cielo", quando fu detto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. In tal modo le parole: Dio disse: Vi sia la luce. E vi fu la luce, potrebbero essere intese nel senso che si volse verso di Lui e fu illuminata nel momento in cui il Creatore la richiamò a sé.

Forse Dio creò "dicendo" nel suo Verbo?

3. 8. E perché mai la Scrittura dice: Nel principio Dio creò il cielo e la terra e non: "Nel principio Dio disse: "Vi sia il cielo e la terra"? " E vi furono il cielo e la terra", allo stesso modo ch'è narrato a proposito della luce: Dio disse: Vi sia la luce. E vi fu la luce? Forse che prima con l'espressione "cielo e terra" bisognava abbracciare e affermare genericamente ciò che Dio aveva fatto e di poi spiegare in particolare come lo aveva fatto, dicendo per ogni creazione: Dio disse, nel senso che tutto ciò che Dio fece lo fece mediante il suo Verbo?

Come vien creata la creatura informe.

4. 9. O forse non era conveniente usare l'espressione: Dio disse: Vi sia... nell'atto che veniva creata la materia informe, tanto la spirituale quanto la corporale, poiché l'imperfezione non imita la forma del Verbo sempre unito al Padre, cioè del Verbo per mezzo del quale Dio chiama eternamente all'esistenza tutte le cose, non con il far risonare delle parole, né mediante il pensiero che si svolge nella durata delle parole pronunciate, ma in virtù della luce della Sapienza da lui generata e a lui coeterna? Essendo dissimile da chi "è" in sommo grado e in modo originario, la materia, per una sorta d'informità, tende verso il nulla; [la creatura] invece imita la forma del Verbo sempre e immutabilmente unita al Padre, quando anch'essa col volgersi, in modo proporzionato al suo genere, verso Chi è veramente ed eternamente, cioè verso il Creatore della propria sostanza, ne riceve la somiglianza e diventa perfetta? In tal modo quanto narra la Scrittura: E Dio disse: Vi sia... potremmo intenderlo come la parola incorporea di Dio emanante dalla natura del suo Verbo coeterno, che richiama a sé la creatura ancora imperfetta affinché non resti informe ma riceva la forma adatta a ciascuno degli esseri che la Scrittura espone successivamente. Per via di questa conversione e formazione ciascuna creatura, secondo la propria capacità, imita il Verbo di Dio, ossia il Figlio di Dio sempre unito al Padre in virtù della sua piena somiglianza e dell'uguale essenza per cui egli e il Padre sono uno, ma non imita questa forma del Verbo se, allontanandosi dal Creatore, resta informe ed imperfetta; per questo motivo il Figlio è ricordato non perché Verbo ma solo perché principio quando è detto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra; poiché viene indicato l'esordio della creatura nello stato informe dell'imperfezione. Del Figlio invece, in quanto è anche il Verbo, si fa menzione nella frase: E Dio disse: Vi sia... Per conseguenza, quando si fa menzione del Figlio come principio, la Scrittura ci mostra un esordio della creatura che riceve da lui un'esistenza ancora imperfetta, mentre, quando lo menziona come Verbo, essa ci mostra la perfezione della creatura richiamata verso di lui per assumere la sua forma unendosi al Creatore e imitando, in proporzione del suo grado di essere, la Forma eternamente e immutabilmente unita al Padre, dal quale essa riceve subito d'essere ciò ch'è lui stesso.

Rapporto tra il Verbo (la Sapienza) e la creatura.

5. 10. Il Verbo, Figlio [di Dio], non ha una vita informe, poiché per lui non solo l'essere è lo stesso che il vivere ma il vivere per lui è anche lo stesso che vivere nella sapienza e nella felicità. La creatura, al contrario, sebbene spirituale e intelligente o razionale, che pare più vicina al Verbo, può avere una vita informe poiché per essa il vivere non è lo stesso che vivere nella sapienza e nella felicità, come l'essere è per essa la medesima cosa che il vivere. Essa infatti, una volta allontanatasi dall'immutabile Sapienza, vive nella stoltezza e nella miseria, e questo stato corrisponde alla sua informità. Essa invece riceve la sua forma quando si volge verso l'immutabile luce della Sapienza ch'è il Verbo di Dio: per vivere infatti sapiente e felice essa si volge verso Colui dal quale è stata tratta all'esistenza per avere l'essere e una vita come che sia. Il principio della creatura intelligente infatti è l'eterna Sapienza; di modo che, pur rimanendo in se stesso immutabile, questo principio non cesserebbe mai di parlare, con la voce misteriosa della sua ispirazione, alla creatura di cui è il principio, perché si volgesse verso Colui dal quale ha l'essere, poiché in altro modo non potrebbe ricevere la forma e la perfezione. Ecco perché, essendogli stato chiesto chi egli fosse, [Cristo] rispose: Io sono il Principio e per questo vi parlo.

"Acqua": materia corporea o vita spirituale fluttuante?

5. 11. Ora, ciò che dice il Figlio, lo dice il Padre poiché, quando parla, il Padre pronuncia il suo Verbo ch'è il Figlio; parlando nel suo modo eterno di essere - se pur si può parlare di modo di essere - Dio pronuncia il Verbo a lui coeterno. In Dio infatti è [per sua essenza] la somma, santa, giusta benevolenza e uno speciale amore verso le proprie opere non derivante dalla necessità ma dalla sua bontà. Ecco perché la frase della Scrittura: Dio disse: Vi sia la luce è preceduta da quest'altra: E lo Spirito di Dio si portava sopra le acque. Con il termine "acqua" la Scrittura ha voluto indicare una di queste due cose: o l'insieme della materia fisica facendo così vedere ciò di cui sono fatte e formate tutte le cose che noi ormai possiamo distinguere quanto alla loro specie - la Scrittura chiama acqua la materia poiché noi vediamo tutte le cose sulla terra formarsi e crescere, secondo le varie loro specie, grazie all'elemento umido - oppure denota una sorta di vita spirituale indeterminata e, per così dire, allo stesso fluido prima di ricevere la sua forma col volgersi verso Dio. Di certo però lo Spirito di Dio si portava al di sopra [della materia], poiché alla buona volontà del Creatore soggiaceva tutto ciò a cui aveva cominciato a dar forma e perfezione di modo che, dicendo Dio, mediante il suo Verbo: Vi sia la luce, l'essere creato sarebbe stato permanente, secondo la capacità della sua specie, nel beneplacito di Dio, sarebbe cioè continuato a piacergli. È quindi buono ciò ch'è piaciuto a Dio, poiché la Scrittura dice: E vi fu la luce. E Dio vide che la luce è buona.

La Trinità operante nell'origine e nella perfezione della creatura.

6. 12. In tal modo la Trinità del Creatore è presentata proprio all'inizio della creazione appena abbozzata; essa è ricordata con il termine di "cielo e terra" in vista di ciò che doveva esser portato a termine a partire da essa - poiché quando la Scrittura dice: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, con il nome di "Dio" noi intendiamo il Padre, con il nome di "Principio" il Figlio, ch'è principio non del Padre, ma anzitutto e soprattutto della creatura spirituale creata da Lui e per conseguenza lo è anche di tutte le altre creature -; quando invece la Scrittura dice: Lo Spirito di Dio si portava sulle acque, noi riconosciamo la menzione completa della Trinità; ugualmente nell'atto con cui la creatura si volge a Dio e viene resa perfetta in modo che vengono distinte le diverse specie degli esseri, ci viene fatta conoscere la medesima Trinità e cioè da una parte il Verbo di Dio e Colui che genera il Verbo, quando la Scrittura dice: E Dio disse, e dall'altra la santa Bontà - per la quale a Dio piace qualunque essere gli piace d'aver reso perfetto nei limiti della capacità della sua natura - quando la Scrittura dice: Dio vide ch'è una cosa buona.

Che vuol dire: Lo Spirito aleggiava sulle acque.

7. 13. Ma perché mai è menzionata prima la creatura ancora imperfetta e poi lo Spirito di Dio? La Scrittura infatti prima disse: La terra però era invisibile e caotica e le tenebre erano sopra l'abisso, e dopo soggiunse: e lo Spirito di Dio si portava al di sopra delle acque. Forse perché l'amore indigente e bisognoso [delle cose amate] ama in modo da rimanere soggetto alle cose che ama, perciò quand'era menzionato lo Spirito di Dio, nella cui persona si lascia intendere la sua santa bontà e amore, la Scrittura dice che si portava al di sopra, perché non si pensasse che Dio fosse portato ad amare le opere, che avrebbe fatto, per la necessità dei bisogno anziché per la sovrabbondanza della sua bontà? Memore di ciò l'Apostolo, sul punto di parlare della carità, dice che mostrerà una via sovreminente, e in un altro passo parla della carità di Cristo ch'è al di sopra d'ogni conoscenza. Dovendosi dunque indicare lo Spirito di Dio col dire che si portava al di sopra, era più conveniente che prima fosse presentato qualcosa solo appena avviato, al di sopra del quale si potesse dire ch'Egli si librava non per la posizione ma per la sua potenza che sorpassa e trascende ogni cosa.

Dio ama le sue creature perché esistano e sussistano.

8. 14. Così pure, dopo che le cose appena abbozzate furono portate alla perfezione e ricevettero la loro forma, Dio vide ch'è una cosa buona; egli infatti si compiacque di ciò ch'era stato fatto grazie alla medesima bontà con cui gli era piaciuto di farlo. Poiché due sono i motivi per cui Dio ama la propria creazione: perché esista e perché sussista. Affinché dunque esistesse la creazione capace di sussistere, lo Spirito di Dio si portava al di sopra dell'acqua, affinché invece sussistesse Dio vide ch'è buona. E ciò ch'è detto della luce è detto di tutte le altre creature. Esse infatti sussistono, alcune soggette a Dio in gran santità dopo essersi elevate al di sopra del volgere d'ogni tempo, altre invece seguendo la misura del tempo loro assegnato, venendosi così a tessere, con la recessione e successione delle cose, la bellezza dei secoli.

Quando Dio pronunciò: Vi sia la luce?

9. 15. La frase che disse Dio: Vi sia la luce! E la luce fu fatta, fu dunque pronunciata in un giorno determinato o prima di qualunque giorno? Se infatti Dio la pronunciò mediante il suo Verbo coeterno, certamente la pronunciò fuori del tempo; se invece la pronunciò nel tempo, non la pronunciò mediante il suo Verbo coeterno ma per mezzo di qualche creatura temporale. La luce quindi non sarà la prima creatura, poiché ce n'era già un'altra mediante la quale sarebbe stato detto nel tempo: Vi sia la luce! Si comprende inoltre che ciò di cui è detto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, fu creato prima di qualsiasi giorno, di modo che con il termine "cielo" s'intende la creatura spirituale già fatta e formata e che è, per così dire, il cielo di questo cielo che occupa il grado più alto tra i corpi. In realtà solo nel secondo giorno fu fatto il firmamento che Dio chiamò di nuovo "cielo". Col termine invece di "terra invisibile e caotica" e di "abisso tenebroso" fu denotata la sostanza materiale ancora imperfetta, con cui sarebbero stati fatti gli esseri temporali, dei quali la prima sarebbe stata la luce.

Di che specie era la "voce" di Dio con cui creò la luce?

9. 16. In qual modo però nel tempo Dio potè dire: Vi sia la luce servendosi d'una creatura fatta prima del tempo, è difficile scoprirlo. Noi non pensiamo affatto che quella fosse una parola prodotta dal suono d'una voce, poiché ogni parola di tal genere è il prodotto d'un corpo. O forse con quella sostanza imperfetta fece una voce corporea con cui far sentire la parola: Vi sia la luce? Sarebbe dunque stata creata e formata una voce corporale prima della luce. Ma se la cosa sta così, esisteva già il tempo attraverso il quale scorreva la voce e passavano gli intervalli dei suoni che si succedevano. Ora, se esisteva già il tempo prima che fosse creata la luce, in quale tempo fu creata la voce capace di far sentire: Vi sia la luce? A qual giorno apparteneva quel tempo? Poiché comincia ad esser contato come "uno" ed insieme come "il primo" quel giorno in cui fu creata la luce. O forse fa parte dello stesso giorno tutto lo spazio di tempo sia quello in cui fu creata la voce fisica mediante la quale risonasse: Vi sia la luce, sia quello in cui fu creata la stessa luce? Ma qualsiasi voce di tal genere è proferita da uno che parla affinché giunga al senso fisico d'un altro che ascolta, poiché questo senso è fatto in modo da percepire i suoni attraverso le vibrazioni dell'aria. Aveva forse, dunque, un siffatto udito quella materia invisibile e disordinata, quale ch'essa fosse, alla quale potesse in tal modo far sentire la sua voce e dire: Vi sia la luce? Lungi perciò, dall'animo di chi pensa, quest'ipotesi assurda!

La parola di Dio fu pronunciata nel tempo o fuori del tempo?

9. 17. Forse era dunque spirituale, ma tuttavia temporale, il movimento con cui intendiamo sia stata detta l'espressione: Vi sia la luce prodotto dall'eterno Dio mediante il Verbo a lui coeterno nella creatura spirituale da lui già creata quando la Scrittura dice: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, cioè nel cielo del cielo? Oppure si può intendere che questa parola, non solo senza alcun suono ma anche senza alcun movimento temporale della creatura spirituale, fu in qualche modo fissata e impressa nella sua mente e nella sua ragione dal Verbo coeterno al Padre e, in conseguenza di quella parola, la sostanza corporea imperfetta, inferiore e tenebrosa, si sarebbe mossa e volta verso la sua Forma e sarebbe diventata luce? Ma se l'ordine di Dio non è dato in modo temporale e se la creatura spirituale che, mediante la contemplazione della verità, trascende qualsiasi tempo, non lo ascolta in un modo temporale, ma trasmette alle creature inferiori, come enunciati intelligibili, le ragioni in essa impresse intellettualmente dall'immutabile Sapienza di Dio, è estremamente difficile comprendere come si possa affermare che si formano movimenti di natura temporale negli esseri temporali affinché siano formati o governati. Se invece si deve intendere che la luce, la prima [creatura] di cui fu detto: Vi sia e: Vi fu, ha pure la preminenza sulle altre creature, è la stessa vita intellettuale che, se non si volgesse verso il Creatore per essere illuminata, rimarrebbe fluttuante e informe. Ma una volta rivoltasi [a Dio] e illuminata che fu, allora fu creato ciò ch'era stato detto mediante il Verbo di Dio: Vi sia la luce.

Da Gen 1, 5 pare che la luce fu creata nello spazio di un giorno.

10. 18. Cionondimeno, allo stesso modo che questo fu detto al di fuori del tempo, in quanto il Verbo coeterno al Padre non è soggetto al tempo, si potrebbe porre il quesito se anche quell'opera fu fatta al di fuori del tempo. Ma come si può intendere una simile cosa, dal momento che dopo la creazione della luce, la sua separazione dalle tenebre e dopo la denominazione di "giorno" e di "notte", la Scrittura afferma: E fu sera e fu mattina: un giorno? Da questo testo pare che quell'opera di Dio fu compiuta nello spazio d'un giorno, trascorso il quale si giunse alla sera, ch'è l'inizio della notte. Parimenti, trascorso lo spazio della notte, fu completato l'intero giorno e, per conseguenza, il mattino diede inizio ad un altro giorno, in cui Dio portò successivamente a termine altre opere.

Creazione istantanea della luce e sua separazione dalle tenebre.

10. 19. Ma se Dio disse: Vi sia la luce mediante la ragione eterna del suo Verbo senza alcun intervallo di sillabe, è assai strano come mai la luce fu creata in un sì gran lasso di tempo, fin tanto cioè che passasse lo spazio d'un giorno e venisse la sera. O forse la creazione della luce fu, sì, istantanea, ma la durata del giorno passò mentre la luce veniva separata dalle tenebre e a tutt'e due le creature separate veniva assegnato il proprio nome? Ma sarebbe strano se anche ciò poté esser fatto da Dio in tanto spazio di tempo quanto quello in cui lo diciamo noi. Poiché la distinzione della luce dalle tenebre risultò dall'atto stesso con cui fu creata la luce; la luce infatti non ci sarebbe potuta essere, se non fosse stata separata dalle tenebre.

Dio chiamò luce il giorno, cioè nelle ragioni eterne della sua Sapienza.

10. 20. Rispetto però al fatto che Dio chiamò la luce giorno e le tenebre notte, in quanto spazio di tempo poteva fare ciò, anche se l'avesse fatto pronunciando vocalmente le parole sillaba per sillaba, se non quanto occorre anche a noi per dire: "La luce si chiami giorno e le tenebre si chiamino notte"? Salvo che uno sia per caso tanto insensato da pensare che, siccome Dio è più grande d'ogni cosa, le sillabe pronunciate dalla bocca di Dio - quantunque assai poche - poterono riempire tutto lo spazio d'un giorno. A ciò s'aggiunge il fatto che Dio chiamò giorno la luce e notte le tenebre servendosi non del suono d'una voce corporea ma del Verbo a lui coeterno, cioè delle ragioni interne ed eterne della sua immutabile Sapienza. D'altra parte, se Dio avesse usato le parole di cui ci serviamo noi, di nuovo sorge il quesito in quale lingua parlò e quale bisogno c'era d'una successione di suoni ove non esisteva l'udito fisico di nessuno, e a tale quesito non si trova risposta.

Il giorno e la notte si avvicendano lungo il percorso del sole nelle 24 ore.

10. 21. Si deve forse dire che, pur essendo stata quest'opera di Dio compiuta in un istante, la luce perdurò senza che sopraggiungesse la notte finché non fosse compiuto lo spazio d'un giorno e che la notte, succedendo al giorno, durò tanto a lungo finché non passasse lo spazio della notte e si facesse il mattino del giorno seguente dopo ch'era passato il primo e unico giorno? Ma se io dirò così, ho paura d'essere deriso sia da coloro che hanno nozioni scientifiche molto esatte sia da coloro che assai facilmente possono osservare che quando da noi è notte, la presenza della luce illumina le altre parti del mondo che il sole percorre prima di tornare dalla parte ove tramonta a quella ove sorge; per questo motivo nello spazio di tutte le ventiquattro ore c'è sempre, lungo il percorso circolare del sole, una parte [della terra] ov'è giorno e un'altra ov'è notte. Collocheremo dunque Dio in una parte di questo percorso ove per lui fosse sera quando la luce lasciasse quella parte per andare in un'altra? In realtà nel libro chiamato Ecclesiaste sta scritto: Il sole sorge e il sole tramonta e ritorna al proprio luogo, cioè nel luogo d'onde sorge. Subito dopo infatti è detto: Il sole sorgendo va verso il Sud e poi gira verso Settentrione. Quando dunque le regioni australi hanno il sole, per noi è giorno, quando invece il sole, facendo il suo giro, attraversa le regioni settentrionali, per noi è notte. Non è tuttavia da credere che non sia giorno nelle altre regioni ove c'è il sole, salvo che le finzioni poetiche c'inducano a credere che il sole s'immerge nel mare e, dopo essersi bagnato, risorge la mattina dalla parte opposta. D'altronde anche se fosse così, lo stesso abisso sarebbe illuminato dalla presenza del sole e vi sarebbe il giorno. Esso infatti potrebbe illuminare anche le acque, dal momento che il sole non potrebbe essere spento da esse. Ma il solo immaginare [possibile] una cosa simile è un'assurdità. E che dire del fatto che il sole ancora non c'era?

Luce spirituale o luce fisica?

10. 22. Se dunque la luce spirituale fu creata il primo giorno, tramontò forse perché le succedesse la notte? Se invece era una luce fisica, qual è mai la luce che non possiamo vedere dopo il tramonto del sole, dato che non esistevano ancora né la luna né le stelle? Oppure, se quella luce si trova sempre nella parte del cielo ov'è il sole senz'essere la luce del sole ma, per così dire, la sua compagna e ad esso tanto strettamente unita da non potersi distinguere e discernere, si torna alla difficoltà della presente questione che si deve risolvere. Poiché anche questa luce, allo stesso modo che il sole, di cui sembra esser la compagna, nel suo percorso, dal luogo ove tramonta ritorna a quello dove sorge ed è in un'altra parte del mondo al momento che questa parte, ove siamo noi, si copre di tenebre per la notte. Da ciò si dovrebbe concludere - cosa inammissibile - che Dio si sarebbe trovato in un luogo d'onde questa luce si sarebbe separata affinché per lui potesse essere sera. O forse Dio aveva creato la luce solo in quella regione in cui aveva intenzione di creare l'uomo e perciò [la Scrittura] dice ch'era sera quando la luce, allontanatasi per risorgere il mattino seguente dopo aver compiuto il suo percorso, fosse in un'altra regione?

La luce primordiale o la successione dei giorni?

11. 23. Perché dunque il sole fu creato per essere a capo del giorno e per illuminare la terra se, a produrre il giorno, era sufficiente la luce ch'era stata chiamata anche "giorno"? Quella luce primordiale illuminava forse regioni superiori tanto lontane dalla terra da non poter essere percepita sulla terra e così era necessario fosse creato il sole affinché per mezzo suo il giorno apparisse alle regioni inferiori del mondo? Si potrebbe anche dire che lo splendore del giorno fu accresciuto con l'aggiunta del sole, e perciò si potrebbe credere, che in virtù di quella sola luce, il giorno sarebbe stato meno splendente di quanto è adesso. Io so che da un esegeta è stata proposta anche un'altra soluzione: tra le opere del Creatore sarebbe stata prodotta dapprima la sostanza della luce quando [Dio] disse: Vi sia la luce, e vi fu la luce; in seguito invece, quando si parla dei luminari [del cielo], la Scrittura avrebbe ricordato quali corpi [luminosi] furono creati con la stessa luce secondo l'ordine dei giorni in cui il Creatore decise di compiere tutte le sue opere. Ma dove sia andata a finire quella sostanza luminosa quando fu sera, quell'esegeta non l'ha detto e penso che non è facile poterlo sapere. Non si può, infatti, credere ch'essa si fosse spenta perché prendessero il suo posto le tenebre della notte, e si fosse accesa di nuovo perché ricominciasse il mattino prima che fosse prodotto per mezzo del sole questo avvicendamento che cominciò dal quarto giorno, come attesta la stessa Scrittura.

Luce e ombra: giorno e notte prima della creazione del sole.

12. 24. Ma è difficile trovare e spiegare con qual percorso circolare - prima della comparsa del sole - si sarebbe potuta avere la successione di tre giorni e di tre notti, se continuava a risplendere quella luce creata all'origine [delle cose], supposto ch'essa sia da intendere come una luce materiale. Uno però potrebbe avanzare l'ipotesi che l'ammasso delle terre e delle acque, prima che queste fossero separate le une dalle altre - cosa che la Scrittura dice avvenuta solo il terzo giorno - Dio lo chiamò "tenebre" a causa della densità più spessa del suo volume impenetrabile alla luce o a causa dell'oscurità assai fitta d'un ammasso sì grande che, se occupava uno degli emisferi di questa sostanza materiale, necessariamente l'altro era illuminato. Poiché nella parte d'un corpo qualunque, alla quale la sua massa non permette ch'arrivi la luce, c'è l'oscurità; ciò infatti che si chiama oscurità non è altro che la mancanza di luce sopra una superficie che sarebbe illuminata, se non lo impedisse un corpo posto davanti ad essa. Se questo corpo è talmente voluminoso da occupare tanta superficie della terra quanta ne occupa la luce dalla parte opposta, l'oscurità si chiama notte. Ma non ogni specie di tenebre è notte. Così nella profondità di spelonche assai vaste, ove la luce non può penetrare a causa della massa di terra interposta, ci sono - è vero - le tenebre, poiché non c'è la luce e tutto quello spazio ne è privo, tuttavia siffatte tenebre non si chiamano "notte" ma solo quelle che sottentrano in una parte della terra dalla quale se n'è andata la luce. Così pure non ogni specie di luce è chiamata "giorno" - c'è infatti anche la luce della luna, delle stelle, delle lampade, dei lampi e di tutto ciò che splende allo stesso modo - ma si chiama "giorno" solo la luce alla quale, allorché si ritira, succede la notte.

Con qual luce si succedevano i tre giorni e le tre notti?

12. 25. Ma se quella luce primordiale ricopriva da ogni parte la terra attorno alla quale era diffusa, sia che restasse ferma sia che le girasse attorno, non c'era regione da cui permettesse che le succedesse la notte, poiché non si allontanava da nessun luogo per farle posto. O forse la luce era stata creata in una sola parte [della terra] in modo che, nel compiere il suo percorso circolare, lasciasse compiere successivamente il percorso circolare dall'altra parte anche alla notte? Dato infatti che l'acqua ricopriva ancora tutta la terra, nulla impediva che su una faccia di questa massa sferica d'acqua producesse il giorno la presenza della luce e che nell'altra faccia l'assenza della luce producesse la notte che, a cominciar dalla sera, succedesse sulla faccia dalla quale la luce s'allontanava verso l'altra faccia.

Dove si raccolsero le acque che coprivano la terra?

12. 26. In qual luogo dunque si raccolsero le acque, se prima occupavano tutta quanta la terra? In qual luogo cioè si raccolsero le acque che si ritirarono affinché la terra fosse messa a nudo? Se infatti v'era già qualche parte nuda della terra, ove le acque potessero ammassarsi, la terra appariva già asciutta e l'abisso non ne occupava l'intera superficie; se invece le acque ne coprivano tutta la superficie, qual era il luogo in cui potevano raccogliersi affinché apparisse la terra asciutta? Si radunarono forse verso l'alto come avviene quando la messe, dopo essere stata trebbiata, viene lanciata in alto per essere vagliata e, raccolta così in un mucchio, sgombra il luogo che aveva ricoperto quando era sparsa? Chi potrebbe asserire una simile cosa quando vede il mare che si estende dappertutto come una superficie tutta piana, poiché anche quando le acque agitate si alzano a guisa d'un monte, si appianano di nuovo dopo essersi placate le tempeste? Inoltre, se le spiagge sono messe a nudo per larghi tratti, non può dirsi che le acque ritirandosi non vadano ad occupare altre terre, dalle quali tornano poi ad occupare di nuovo i luoghi donde s'erano ritirate. Ma poiché tutta la terra era completamente coperta dall'acqua, ove mai questa si sarebbe ritirata per lasciare scoperte alcune regioni? O forse l'acqua meno densa copriva le terre come una nuvola ma poi divenne più densa nell'ammassarsi per mettere a nudo, tra molte regioni, quelle in cui potesse apparire la terra ferma? Sennonchè anche la terra, abbassandosi in vaste estensioni, avrebbe potuto offrire delle depressioni in cui si sarebbero potute raccogliere le acque che, affluendo, vi si sarebbero precipitate in massa e sarebbe potuta apparire asciutta nelle regioni dalle quali l'acqua si sarebbe ritirata.12. 27. Ma la materia non sarebbe del tutto informe, se poteva apparire anche sotto una forma nebulosa.

Quando furono create la terra e l'acqua sotto forma visibile?

13. 27. Ecco perché può sollevarsi anche il quesito in qual momento Dio creò le forme visibili e le proprietà delle acque e delle terre, poiché ciò non si trova ricordato in nessuno dei sei giorni [della creazione]. Ammettiamo pertanto che Dio le creò prima che iniziassero i giorni, allo stesso modo che prima della menzione di quei giorni sta scritto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, in modo che mediante il nome di "terra" noi intendiamo la terra già formata con il suo aspetto esteriore, ricoperta dalle acque già mostrate chiaramente nella loro propria forma visibile; in tal caso, riguardo a ciò che la Scrittura soggiunge dicendo: La terra però era invisibile e confusa e le tenebre erano sopra l'abisso: e lo Spirito si librava al di sopra delle acque, non dobbiamo pensare a uno stato informe della materia, ma alla terra e all'acqua prive di luce - che ancora non era stata fatta - ma create con le proprietà che ormai conoscono tutti. Per conseguenza la terra è chiamata "invisibile" nel senso che, essendo coperta dalle acque, non poteva essere vista, anche se ci fosse stato uno che potesse vedere; è poi detta "confusa" perché non era ancora separata dal mare né circondata di spiagge né adornata dei suoi prodotti e animali. Se dunque è così, perché mai queste forme - che senza dubbio sono materiali - furono create prima di qualsiasi giorno? Per qual motivo la Scrittura non dice: "Dio disse: "Vi sia la terra". E vi fu la terra", e così pure: "Dio disse: "Vi sia l'acqua". E vi fu l'acqua", o anche, accomunando entrambi gli elementi - essendo essi uniti per così dire dalla legge che assegna loro il gradino più basso -: "Dio disse: "Vi sia la terra e l'acqua". E così fu?".

L'essere mutevole proviene da materia informe creata da Dio.

14. 27. Per qual motivo, dopo la creazione di questi elementi, la Scrittura non dice: "Dio vide ch'è una cosa buona"?14. 28. A persuaderci basta la seguente considerazione: è chiaro che ogni essere mutevole è formato a partire da uno stato d'informità; nello stesso tempo non solo la fede cattolica ci comanda di credere, ma anche la ragione c'insegna con solidi argomenti che la materia di tutte le nature non sarebbe potuta esistere se non per opera di Dio, primo autore e creatore non solo delle nature formate, ma anche di quelle formabili. Di questa materia parla a lui anche l'agiografo che dice: Tu hai creato il mondo dalla materia informe. Questa considerazione c'insegna inoltre che la Scrittura, secondo lo spirito della Sapienza, per adattarsi anche a lettori o a uditori piuttosto tardi di mente, fa allusione a questa materia con le parole che precedono l'enumerazione dei giorni, allorché dice: Nel principio Dio creò il cielo e la terra ecc. fino alle parole: E Dio disse, venendo in seguito esposto il racconto ordinato degli altri esseri formati.

Sono concreate la materia e la forma delle cose.

15. 29. Non si deve pensare però che la materia informe sia anteriore in ordine di tempo alle cose formate, essendo stato concreato simultaneamente sia ciò da cui una cosa è fatta, sia ciò ch'è fatto. Così, per esempio, la voce è la materia delle parole e le parole invece indicano la voce formata; tuttavia chi parla non emette prima una voce informe ch'egli potrebbe in seguito determinare e formare per farne delle parole; allo stesso modo Iddio creatore non creò dapprima la materia informe e in seguito, grazie - per così dire - a una seconda considerazione, la formò seguendo l'ordine delle diverse nature, poiché egli creò la materia formata. Ora, ciò a partire da cui una cosa è fatta, è anteriore - se non quanto al tempo, almeno quanto a quella che impropriamente potrebbe chiamarsi origine - a ciò ch'è fatto per mezzo di quello; per questo motivo la Scrittura ha potuto separare nei momenti della narrazione ciò che Dio non separò nei momenti della creazione. Se infatti ci si chiedesse se formiamo la voce servendoci delle parole o le parole servendoci della voce, difficilmente si troverebbe alcuno sì tardo d'ingegno che non risponderebbe che sono piuttosto le parole a esser formate con la voce; così, quantunque chi parla faccia nello stesso tempo le due azioni, basta un'attenzione ordinaria per scoprire qual è quella formata con l'altra. Per questo motivo, poiché Dio creò simultaneamente l'una e l'altra cosa, sia la materia da lui formata sia le cose per le quali l'aveva formata, la Scrittura doveva da una parte parlare di entrambe le cose e dall'altra non poteva parlare simultaneamente; chi potrebbe dubitare che doveva parlare di ciò con cui un essere fu fatto per mezzo di quello? Infatti anche quando nominiamo la materia e la forma, noi comprendiamo che l'una e l'altra esistono simultaneamente, ma non possiamo pronunciarle entrambe simultaneamente. Orbene, allo stesso modo che, quando pronunciamo queste due parole, succede che in breve tratto di tempo pronunciamo l'una prima dell'altra, così in un racconto piuttosto lungo era necessario riferire la creazione della materia prima di quella della forma benché Dio - come ho già detto - creasse l'una e l'altra simultaneamente. Per conseguenza ciò che nell'atto del creare è primo solo quanto all'origine, nella narrazione è primo anche quanto al tempo; se infatti due cose, di cui l'una non è per nulla anteriore all'altra, non possono essere nominate nello stesso tempo, tanto meno possono raccontarsi nello stesso tempo. Non si deve dunque dubitare che questa materia informe, quale che sia la sua natura, è tanto vicina al nulla che fu concreata con le cose formate a partire da essa.

In che modo la Scrittura denota l'informità della materia.

15. 30. Se dunque è ragionevole credere che la Scrittura indica questa materia quando dice: La terra era invisibile e confusa e le tenebre regnavano sopra l'abisso, e lo Spirito di Dio si librava al di sopra delle acque, eccettuato ciò che vi si afferma dello Spirito di Dio, dobbiamo intendere che tutti gli altri termini, con cui sono indicate le cose visibili, sono stati usati per indicare, per quanto era possibile, a persone piuttosto tarde d'ingegno questa informità della materia; questi due elementi infatti, cioè la terra e l'acqua, nelle mani degli artigiani sono più docili degli altri per fare qualcosa e perciò più adatti a denotare quell'informità.

Altra ipotesi sul giorno e sulla notte: effusione e contrazione della luce.

16. 30. Se dunque una tale ipotesi è ragionevole, la terra non era una massa già formata, della quale la luce avrebbe illuminato un emisfero mentre l'altro sarebbe rimasto nelle tenebre, potendo così la notte succedere al ritirarsi del giorno.16. 31. Ma se volessimo intendere per "giorno" e "notte" l'emissione e la contrazione di quella luce, da una parte non si vede la ragione perché la cosa fosse così - poiché non c'erano ancora esseri viventi cui potesse giovare un siffatto avvicendarsi [del giorno e della notte] come lo vediamo presentarsi adesso agli esseri creati in seguito, a causa del percorso circolare del sole - d'altra parte non si trova alcun fatto simile con cui potremmo provare una siffatta emissione e contrazione della luce perché potessero verificarsi le alternanze del giorno e della notte. Senza dubbio i raggi emessi dai nostri occhi sono veramente emissione di una specie di luce che può restringersi quando guardiamo l'aria vicina ai nostri occhi e allungarsi quando guardiamo nella stessa direzione oggetti siti a distanza. Ma anche quando si restringe, il nostro sguardo non cessa del tutto di vedere gli oggetti lontani, sebbene li veda di certo meno chiaramente di quando lo sguardo si estende fino ad essi. È tuttavia certo che la luce, che si trova nel senso di chi vede, è tanto debole che, senza l'aiuto d'una luce esterna [all'occhio], non potremmo veder nulla; e, poiché non può distinguersi da quella esterna, è difficile - come ho già detto - trovare qualcosa di simile con cui si possa provare che l'emissione della luce produce il giorno e la sua contrazione la notte.

La luce spirituale, la luce increata e l'illuminazione delle creature spirituali e razionali.

17. 32. Se al contrario, quando Dio disse: Vi sia la luce, fu creata la luce spirituale, non si deve pensare che fosse la luce vera, coeterna al Padre, per mezzo della quale fu creata ogni cosa e che illumina ogni uomo, ma quella di cui la Scrittura ha potuto dire: Tra tutte le cose fu creata per prima la Sapienza. Quando infatti la Sapienza eterna ed immutabile, non creata ma generata, si comunica alle creature spirituali e razionali, come alle anime sante, affinché [da essa] illuminate possano risplendere, allora si costituisce in esse uno - per così dire - stato della ragione illuminata, che può concepirsi come la creazione della luce quando Iddio disse: Vi sia la luce. Se già esisteva una creatura spirituale indicata con il nome di "cielo" nel passo ove sta scritto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, questo cielo non è quello corporale ma il cielo incorporale, vale a dire il cielo superiore a ogni corpo, non per la disposizione dello spazio a piani ma per l'eccelsa dignità della sua natura. Come tuttavia poté esser creato nello stesso tempo non solo ciò ch'era capace d'essere illuminato, ma anche la stessa illuminazione, e come la Scrittura avrebbe dovuto esporre le due cose una dopo l'altra, lo abbiamo detto poco prima quando abbiamo parlato della materia.

Spiegazione allegorica della separazione della luce dalle tenebre.

17. 33. Ma in qual senso potremo intendere il subentrare della notte alla luce affinché venisse la sera? Da quale specie di tenebre quella luce poté essere separata quando la Scrittura dice: E Dio separò la luce dalle tenebre? C'erano forse già dei peccatori e degli stolti che s'allontanavano dalla luce della verità, sicché Dio avrebbe separato quelli da coloro che rimanevano nella medesima luce, come la luce dalle tenebre, e chiamando "giorno" la luce e "notte" le tenebre, avrebbe voluto mostrare che egli non è l'autore dei peccati ma il giudice che retribuisce secondo i meriti? O forse il termine "giorno" denota qui la totalità del tempo e con questo termine si abbraccia lo svolgersi di tutti i secoli? Per questo, forse, la Scrittura non parla di "primo" giorno ma di "un" giorno? Essa infatti dice: E fu sera e fu mattina: un giorno, sicché la sera rappresenterebbe il peccato della natura razionale e il mattino il suo rinnovamento.

Che cosa fu propriamente la separazione della luce dalle tenebre.

17. 34. Ma questo è [il tentativo di] una interpretazione propria dell'allegoria profetica che noi non ci siamo proposti in questo trattato. Adesso infatti ci siamo proposti di commentare le Scritture nel senso proprio dei fatti storici in esse registrati, non nel senso allegorico di realtà future. Per render dunque conto della creazione e della costituzione delle nature, in qual modo possiamo scoprire una sera e un mattino nella luce spirituale? La separazione della luce dalle tenebre è forse la distinzione delle cose già formate da quelle informi, mentre la denominazione di "giorno" e di "notte" alluderebbe alla disposizione con cui s'indica che Dio non lascia nulla nel disordine, e la stessa informità - a causa della quale le cose cambiano passando in certo qual modo da una forma in un'altra - non resta caotica? Oltre a ciò lo stesso regresso e progresso della creatura, per cui le cose temporali si succedono le une alle altre, non mancano di concorrere alla bellezza dell'universo? La notte infatti non è altro che la tenebra regolata da un ordine.

Che cosa denoterebbe il mattino e la sera precedente i luminari.

17. 35. Ecco perché, dopo essere stata creata la luce, la Scrittura dice: Dio vide che la luce è buona, mentre ciò poteva dirlo dopo tutte le opere compiute nel medesimo giorno; ossia, dopo aver esposto le singole opere: Dio disse: Vi sia la luce. E vi fu la luce. E Dio separò la luce dalle tenebre; e Dio chiamò giorno la luce e notte le tenebre, allora avrebbe potuto dire: E Dio vide ch'è una cosa buona e poi aggiungere: E fu sera e fu mattina, come fa per le altre opere, alle quali dà un nome. Qui dunque non fa così per il fatto che l'informità è distinta dalla cosa formata al fine di mostrare ch'essa non aveva ricevuto la completezza del suo essere, ma doveva ricevere la forma mediante le altre creature già corporee. Se pertanto, dopo che la luce e le tenebre erano state separate e avevano ricevuto il nome, la Scrittura avesse detto: Dio vide che ciò è una cosa buona, avremmo potuto pensare che s'indicavano creature alle quali non si sarebbe ormai dovuto aggiungere nulla per quanto riguarda la loro forma specifica. Ma poiché Dio aveva creato nella sua forma compiuta soltanto la luce, la Scrittura dice: Dio vide che la luce è una cosa buona, e la distinse dalle tenebre dando [a queste e a quella] nomi diversi; ma in tal caso non è detto: Dio vide ch'è una cosa buona, poiché l'informità era stata separata affinché servisse a formare ancora altre nature. Quando, al contrario, la notte che noi conosciamo assai bene - essa infatti è prodotta dal percorso circolare del sole attorno alla terra - viene distinta dal giorno mediante la disposizione dei luminari, dopo la separazione stessa del giorno dalla notte, la Scrittura dice: Dio vide ch'è una cosa buona. La notte, di cui si tratta, non era infatti una specie di sostanza informe che dovesse servire a formare altre nature, ma era uno spazio pieno d'aria privo della luce del giorno: a questa notte non si sarebbe certamente dovuto aggiungere alcuna caratteristica specifica perché fosse più bella e più distinta. Quanto invece alla sera, durante tutto lo spazio di quei tre giorni precedenti alla creazione dei luminari, forse non è illogico pensare che indichi il termine dell'opera compiuta, mentre il mattino indicherebbe l'opera che sarebbe stata compiuta in seguito.

Dio opera mediante le ragioni eterne del Verbo e l'amore dello Spirito Santo.

18. 36. Ma dobbiamo anzitutto ricordarci di ciò che abbiamo detto più volte: che cioè Dio non agisce con una specie di moti spirituali o corporali misurabili nel tempo, così come agisce l'uomo o l'angelo, bensì mediante le ragioni eterne immutabili e stabili del Verbo a lui coeterno e, per così dire, mediante una specie d'incubazione del suo Spirito Santo parimenti a Lui coeterno. Poiché anche ciò che la Scrittura dice in latino e in greco dello Spirito di Dio che si librava al di sopra delle acque, secondo l'interpretazione data dalla lingua siriaca, ch'è più vicina all'ebraica - come si dice sia stato spiegato da un dotto cristiano siro - si dimostra che significa non si librava al di sopra, ma piuttosto riscaldava covando, non già come si curano i gonfiori o le piaghe d'un corpo con applicazioni d'acqua fredda o mescolata in giusta misura con acqua calda, ma come sono covate dagli uccelli le uova, nel qual caso il calore del corpo materno contribuisce in certo qual modo a formare i pulcini grazie a una specie d'istinto che, nel suo genere, è un sentimento d'amore. Non dobbiamo dunque immaginare che Dio abbia pronunciato delle parole - diciamo così - temporali per ciascun giorno di quelle opere divine. La Sapienza di Dio infatti, assumendo la nostra debole natura, venne a raccogliere sotto le sue ali i figli di Gerusalemme come la gallina raccoglie i suoi pulcini, non perché restassimo sempre piccoli, ma perché, restando piccoli quanto a malizia, cessassimo d'esser bambini quanto al giudizio.

Occorre cautela nell'interpretare le sacre Scritture.

18. 37. Riguardo poi a realtà oscure e assai lontane dai nostri occhi, ci potrebbe capitare di leggere anche nella sacra Scrittura passi che, salvando la fede in cui siamo istruiti, possono dar luogo a interpretazioni diverse l'una dall'altra; in tal caso dobbiamo stare attenti a non precipitarci a sostenere alcuna di esse, per evitare di andare in rovina qualora un esame della verità più attento la demolisse mediante sicuri argomenti. In tal caso combatteremmo per difendere non già il senso delle Scritture divine ma quello nostro personale sì da sostenere come senso delle Scritture quello ch'è nostro, mentre dovremmo piuttosto sostenere come nostro quello ch'è il senso delle Scritture.

Nell'interpretare passi oscuri della sacra Scrittura non si deve affermare nulla temerariamente.

19. 38. Supponiamo per esempio che riguardo all'affermazione della Scrittura: Dio disse! Vi sia la luce. E la luce vi fu, uno pensi che si tratti della creazione della luce materiale e un altro della luce spirituale. Che nella creatura spirituale vi sia una luce spirituale, non è messo in dubbio dalla nostra fede; d'altra parte pensare che vi sia una luce materiale, celeste o anche supercelestiale o esistente prima del cielo, alla quale poté succedere la notte, non è contrario alla fede fin tanto che ciò non venga confutato da una verità evidente. Qualora ciò si avverasse, non era quello il senso della sacra Scrittura, ma un'opinione dell'umana ignoranza. Qualora, al contrario, quell'opinione fosse dimostrata da ragioni fondate, rimarrebbe ancora incerto se quello fosse il senso voluto attribuire dall'autore dei Libri sacri a quelle parole, o fosse non meno vero qualche altro senso. Se invece tutto il contesto del passo mostrerà non essere ciò ch'egli voleva dire, non sarà falsa ma vera e più utile a conoscersi l'altra interpretazione che lo scrittore voleva far intendere. Se però il contesto della Scrittura non esclude che lo scrittore volesse far intendere questo senso, rimarrà ancora da esaminare se non poteva farne intendere un altro. E se scopriremo che anche quest'altro senso è possibile, sarà incerto quale dei due sensi egli voleva far intendere, e non sarà illogico pensare che abbia voluto suggerire l'uno e l'altro senso, qualora tutt'e due i sensi siano suffragati da tutto il restante contesto.19. 39. Accade infatti assai spesso che, riguardo alla terra, al cielo, agli altri elementi di questo mondo, al moto e alla rivoluzione o anche alla grandezza e distanza degli astri, intorno alle eclissi del sole e della luna, al ciclo degli anni e delle stagioni, alla natura degli animali, delle piante, delle pietre e di tutte le altre cose di tal genere, anche un pagano abbia tali conoscenze da sostenerle con ragionamenti indiscutibili e in base ad esperienza personale. Orbene, sarebbe una cosa assai vergognosa e dannosa e da evitarsi a ogni costo, se quel pagano sentisse quel tale parlare di questi argomenti conforme - a suo parere - al senso delle Scritture cristiane dicendo invece tali assurdità che, vedendolo sbagliarsi - come suol dirsi - per quanto è largo il cielo, non potesse trattenersi dal ridere. Ma è spiacevole non tanto il fatto che venga deriso uno che sbaglia, quanto il fatto che da estranei alla nostra fede si creda che i nostri autori [sacri] abbiano sostenuto tali opinioni e, con gran rovina di coloro, della cui salvezza noi ci preoccupiamo, vengano biasimati come ignoranti e rigettati. Quando infatti, riguardo ad argomenti ben noti ad essi, i pagani sorprendono un cristiano che sbaglia e difende una sua opinione erronea appoggiandola ai nostri Libri sacri, in qual modo potranno prestar fede a quei Libri quando trattano della risurrezione dei morti, della speranza della vita eterna e del regno dei cieli, dal momento che penseranno che questi scritti contengono errori relativi a cose che hanno potuto già conoscere per propria esperienza o in base a sicuri calcoli matematici? Non può dirsi abbastanza qual pena e tristezza rechino ai fratelli assennati questi cristiani temerari e presuntuosi quando, allorché vengono criticati e convinti d'errore a proposito delle loro erronee e false opinioni da parte di coloro che non sono vincolati dall'autorità dei nostri Libri sacri. Costoro inoltre, al fine di sostenere ciò che affermano con sventatissima temerarietà e chiarissima falsità, si sforzano di addurre i medesimi Libri sacri con cui provare le loro opinioni e arrivano perfino a citare a memoria molti passi da loro ritenuti come valide testimonianze in proprio favore, senza comprendere né quel che dicono né ciò che danno per sicuro.

Si deve interpretare la Genesi senza asserire un'unica opinione ma proponendone varie.

20. 40. Considerando questa presunzione e al fine di guardarmene, io stesso ho cercato di spiegare in diversi sensi - per quanto sono stato capace - e di proporre [diverse] interpretazioni delle frasi del libro della Genesi, enunciate in modo oscuro per tenerci in [continua] riflessione. Per questa ragione non ho voluto sostenere alla leggera un'unica interpretazione con pregiudizio d'un'altra spiegazione forse migliore, in modo che, ciascuno possa scegliere secondo la propria capacità il senso ch'è in grado di capire; quando però non riesce ad intendere, alla Scrittura di Dio renda onore ma per sé abbia timore. D'altra parte, siccome le espressioni della Scrittura da noi commentate offrono tante possibili interpretazioni, dovrebbero una buona volta imporsi un freno coloro che, gonfi di cultura profana, criticano queste espressioni, destinate a nutrire le anime pie, come cose prive di scienza e d'eleganza mentre essi, privi di ali, strisciano per terra e alzandosi in volo non più alto del salto delle ranocchie, si beffano degli uccelli nei loro nidi. Ma più pericoloso è l'errore di certi nostri deboli fratelli di fede, i quali ascoltando cotesti infedeli discorrere con facondia e sottigliezza sulle leggi che regolano i corpi celesti e su qualsiasi problema relativo alle cause fisiche di questo mondo, perdono il controllo di sé e sospirando si reputano inferiori a quei tali credendoli dei grandi personaggi e solo con ripugnanza riprendono in mano i Libri della fede, ch'è la fonte preziosa della salvezza, e mentre dovrebbero assaporarne la dolcezza, li toccano a malincuore, sentendo avversione per l'asprezza delle messi, mentre agognano i fiori dei rovi. Essi, infatti, non si danno cura di vedere quanto è dolce il Signore e non hanno fame nel giorno di sabato e, sebbene dal Signore del Sabato ne abbiano avuto il permesso, sono pigri a coglier le spighe, a rigirarle a lungo tra le mani e, sfregandole, nettarle dalla pula fino ad arrivare al chicco nutriente.

Qual senso scegliere nelle frasi spiegabili in diverso modo od oscure.

21. 41. Qualcuno mi dirà: "Dopo tanto battere il grano con questa tua dissertazione, quali chicchi ne hai ricavati? Che cosa hai trovato? Perché mai in coteste questioni quasi tutto rimane ancora oscuro? Pronùnciati per una delle tante interpretazioni che hai dimostrato possibili". A costui rispondo d'esser giunto proprio al nutrimento gustoso, grazie al quale ho imparato che uno non si trova imbarazzato quando risponde conforme alla fede ciò che si deve rispondere agli individui che si piccano di muovere obiezioni capziose contro i Libri della nostra salvezza. In tal modo le tesi relative alla natura delle cose ch'essi potranno dimostrare con argomenti sicuri noi dobbiamo provare che non sono contrarie alle nostre Scritture, mentre tutto ciò che dai diversi loro libri addurranno contrario alle nostre Scritture, cioè alla fede cattolica, dovremo a nostra volta dimostrare, se ne avremo la capacità o, in caso contrario, credere senza la minima esitazione, che quelle tesi sono del tutto false: così crederemo fermamente al nostro Mediatore, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della nostra scienza, e per conseguenza non ci lasceremo lusingare dalla facondia d'una falsa filosofia né spaventare dalla superstizione d'una falsa religione. Quando però leggiamo i Libri sacri, fra i tanti sensi legittimi che si possono ricavare da una breve frase e si basano sulla sana dottrina della fede cattolica, dobbiamo scegliere di preferenza il senso che risulterà certamente conforme al pensiero dell'autore da noi letto; se invece quel senso ci sfugge, dobbiamo scegliere almeno un senso ch'è permesso dal contesto e che si accorda con la retta fede. Se poi non è possibile esaminare e discutere tale senso basandosi sul contesto della Scrittura, dobbiamo scegliere almeno solo il senso che ci viene prescritto dalla retta fede. Una cosa infatti è non discernere il senso inteso principalmente dallo scrittore sacro, un'altra è allontanarsi dalla regola della retta fede. Se si eviterà l'una e l'altra eventualità, il lettore ne ricaverà un pieno profitto; se invece non potrà evitarsi né l'una né l'altra, anche se l'intenzione dello scrittore rimarrà incerta, non sarà inutile trarne un senso conforme alla retta fede.


mercoledì 19 ottobre 2011

Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio Libro XX° (20/20)

Libro XX°

Longino governatore della Siria,
Fado procuratore della Giudea
Libro XX:1 - I, I. - Dopo la morte di Agrippa, della quale ho parlato nel libro precedente, Claudio Cesare mandò Cassio Longino come successore di Marso; fece questo per deferente memoria del re che durante la vita lo aveva più volte pregato di non acconsentire più a che Marso seguitasse a governare la Siria.
Libro XX:2 Arrivato in Giudea come procuratore, Fado trovò che i Giudei abitanti nella Perea erano in rivolta con il popolo di Filadelfia per i confini di un villaggio chiamato Zia infestato da gente bellicosissima. Perciò quelli della Perea, che avevano preso le armi senza il parere dei loro capi, inflissero molte perdite a quelli di Filadelfia.
Libro XX:3 Fado, informato di questo, ne fu molto dispiaciuto verso quelli della Perea, perché quand'anche si credessero oppressi da quelli di Filadelfia, non avevano rimessa la decisione al suo giudizio, ma avevano subito fatto ricorso alle armi.
Libro XX:4 Perciò prese tre dei loro capi, che erano responsabili della rivolta e diede ordine che fossero imprigionati; poi mise a morte uno di loro, di nome Anniba; e impose l'esilio agli altri due, Annaramo ed Eleazaro.
Libro XX:5 Poco tempo dopo gli fu portato davanti in catene e poi messo a morte l'arcibrigante Tolomeo che aveva procurato molti gravi guai nell'Idumea
e tra gli Arabi. Da allora tutta quanta la Giudea fu liberata dai latrocini, grazie alla provvidenziale cura di Fado.
Libro XX:6 In quel periodo egli mandò a chiamare i sommi sacerdoti e i capi del popolo di Gerusalemme e li esortò a depositare nell'Antonia, che è una fortezza, la veste talare e l'abito sacro, che solo il sommo sacerdote suole indossare; quivi erano affidati all'autorità dei Romani, come di fatto era stato nei tempi passati.
Libro XX:7 Essi non tentarono di opporsi: tuttavia pregarono Fado e Longino - quest'ultimo venuto pure a Gerusalemme con una forza notevole per timore che gli ordini di Fado avrebbero spinto il popolo giudaico a una rivolta - che, prima, concedesse loro di inviare una delegazione a Cesare per chiedergli il permesso di custodire l'abito sacro nelle loro mani, e, secondo, di attendere fino a che conoscessero la risposta di Claudio alla loro richiesta.
Libro XX:8 Fado e Longino risposero che di buon grado avrebbero concesso l'ambasciata se avessero lasciato a loro i figli come ostaggi. Tosto, accettata la condizione e dati gli ostaggi, gli ambasciatori partirono.
Libro XX:9 All'arrivo dell'ambasciata a Roma, il giovane Agrippa, figlio del re deceduto, che, come ho detto prima in realtà era alla corte di Claudio Cesare, prese nota dello scopo del loro arrivo e pregò Cesare di concedere ai Giudei la richiesta a proposito dell'abito sacro e di mandare una lettera a Fado a questo riguardo.
Libro XX:10 - 2. Claudio, convocati gli ambasciatori, li informò che accordava la petizione, aggiungendo che dovevano esserne grati ad Agrippa, poiché egli lo faceva su istanza di Agrippa. A conferma del suo assenso, diede loro questa lettera:
Libro XX:11 “Claudio Cesare Germano, nel quinto anno del potere tribunizio, eletto console per la quarta volta, imperatore per la decima, padre della sua patria, ai capi, al consiglio al popolo di Gerusalemme e a tutta la nazione dei Giudei, salute.
Libro XX:12 Il mio amico Agrippa, che ho allevato e ora ho con me, uomo di grandissima pietà, mi ha portato davanti i vostri ambasciatori; questi mi ringraziarono per il sollecito trattamento dimostrato da me verso la vostra nazione, e, avendomi pregato con grande e fervida istanza che l'abito sacro e la corona potessero essere lasciati nelle vostre mani, io ve lo concedo, in accordo
con quello che già era stato fatto da Vitellio, uomo eccellente per il quale ho la più grande stima.
Libro XX:13 Ho dato questo mio assenso, prima perché io stesso ho cara la pietà e desidero vedere che ognuno segua le pratiche religiose che gli sono tradizionali; in secondo luogo, perché so che comportandomi così, farò grande piacere allo stesso re Erode e al giovane Aristobulo, uomini eccellenti dei quali conosco bene la devozione verso la mia persona e la premura che hanno verso di voi; inoltre, a lui mi legano anche vincoli di amicizia.
Libro XX:14 Ho scritto in proposito al mio procuratore Cuspio Fado. I latori di questa lettera sono Cornelio figlio di Cerone, Trifone, figlio di Teudione, Doroteo, figlio di Natanaele, e Giovanni, figlio di Giovanni. Ho scritto il quarto giorno prima delle Calende di Luglio, sotto i consoli Rufo e Pompeo Silvano”.
Erode, amministratore della Calcide
Libro XX:15 - 3. Erode, fratello del defunto Agrippa al quale, in questo tempo, era stata affidata l'amministrazione della Calcide, domandò a Claudio Cesare di dargli autorità sul tempio, sul vasellame sacro, e sulla elezione dei sommi sacerdoti: e tutte queste petizioni gli furono accordate.
Libro XX:16 Questa autorità derivò da lui in quel tempo e passò ai suoi discendenti soltanto fino al termine della guerra. Erode, dunque, allontanò dal suo ufficio il sommo sacerdote soprannominato Cantera, e affidò la successione in questo ufficio a Giuseppe, figlio di Camei.
Monobazo, Elena, Izate
Libro XX:17 - II, I. - In questo stesso periodo, Elena, regina di Adiabene, e suo figlio Izate si convertirono al Giudaismo nelle circostanze seguenti:
Libro XX:18 Monobazo, soprannominato Bazeo, re di Adiabene, colpito da passione verso la propria sorella Elena, la prese come compagna in matrimonio e la rese incinta. Ora, un giorno, mentre egli dormiva al suo fianco, posò la mano sul ventre di lei che dormiva e gli parve di udire una voce che gli ordinava di togliere la mano dal ventre di lei per non arrecare danno al bambino che era dentro; il quale, per provvidenza di Dio, aveva avuto un inizio felice e avrebbe ottenuto una buona fine.
Libro XX:19 Scosso dalla voce, si destò subito, narrò alla moglie queste cose; in seguito nacque il figlio e lo chiamò Izate.
Libro XX:20 Da Elena aveva già avuto un altro figlio di nome Monobazo e altri figli da altre mogli, ma era chiaro che il favore si accentrava su Izate, come se fosse il suo unico figlio.
Libro XX:21 A motivo di questo, i fratellastri di Izate, che avevano in comune il padre, crebbero invidiosi del piccolo, inquieti che il padre preferisse Izate a tutti loro.
Libro XX:22 Il padre si accorgeva di tutto questo, ma li perdonava, attribuendo il sentimento di ognuno non a una motivazione cattiva, ma piuttosto al desiderio di ognuno di conquistarsi i favori del padre; tuttavia era grandemente allarmato per il giovane Izate, temendo che l'odio dei suoi fratelli gli facesse del male: gli diede, dunque, una quantità di doni e lo mandò ad Abennerigo, re di Charax Spasini, al quale affidò la salvezza del fanciullo.
Libro XX:23 Abennerigo accolse cortesemente il ragazzo e prese a volergli tanto bene che gli diede in moglie la figlia di nome Samaco e gli affidò una regione dalla quale potesse trarre buone rendite.
Libro XX:24 - 2. Monobazo, giunto alla vecchiaia e vedendo che non gli rimaneva più molto da vivere, volle vedere suo figlio prima di morire. Lo mandò, dunque a chiamare, gli diede il più affettuoso benvenuto e gli donò una regione detta Carron;
Libro XX:25 una regione eccellente il cui suolo produce una grande abbondanza di amomo, conserva pure dei resti dell'arca nella quale Noè si salvò dal diluvio, resti che oggi si mostrano a chiunque brama vederli.
Libro XX:26 Izate passò i suoi primi giorni in questa regione fino alla morte di suo padre. E nel giorno in cui Monobazo lasciò questa vita, la regina Elena convocò tutti i nobili e i satrapi del regno e quanti avevano cariche militari di comando. Al loro arrivo, disse loro:
Libro XX:27 “Credo che sia a vostra conoscenza quanto mio marito avesse a cuore che nel regno gli succedesse Izate, da lui giudicato degno di tale onore; io però aspetto, la vostra decisione. Poiché felice è colui che riceve il regno non dalle mani di una sola persona, ma di molte che danno volentieri il loro assenso”.
Libro XX:28 Parlò così per assaggiare le disposizioni di coloro che aveva radunato. Udite tali parole, prima di tutto prestarono obbedienza alla regina conforme al loro costume; poi risposero che accordavano il loro sostegno alla decisione del re, e volentieri avrebbero obbedito a Izate, che, conforme alle preghiere di tutti, suo padre aveva preferito ai suoi fratelli.
Libro XX:29 Aggiunsero poi che si auguravano che i fratelli e i parenti fossero messi a morte, affinché Izate potesse sedere sul trono con piena sicurezza; poiché una volta distrutti, si sarebbe allontanata ogni paura che nasce dall'odio e dall'invidia che portano in cuore contro Izate.
Libro XX:30 Elena rispose esprimendo la sua gratitudine per la loro benevolenza verso di lei e verso Izate; ma li pregò di sospendere la decisione di mettere a morte i fratelli fino a quando arrivasse Izate e desse la sua approvazione.
Libro XX:31 Non riuscendo a persuaderla a mettere a morte i fratelli, come essi avevano deciso, le suggerirono che, per la loro propria salvezza, almeno li ponesse in custodia fino al suo arrivo; nel mentre le suggerirono anche di designare, come fiduciario del regno, una persona che godesse pienamente della sua fiducia.
Libro XX:32 Elena gradì questo consiglio e innalzò come re Monobazo, il figlio primogenito; gli mise il diadema sul capo, gli consegnò il sigillo del padre, e ciò che essi chiamano sampsera esortandolo ad amministrare il regno fino all'arrivo di suo fratello.
Libro XX:33 Udita la morte del padre, quest'ultimo venne sollecitamente e succedette a suo fratello Monobazo che gli aveva mantenuto il principato.
Izate ed Elena convertiti
al Giudaismo
Libro XX:34 - 3. Ora, durante il periodo nel quale Izate risiedeva a Charax Spasini, un mercante giudeo di nome Anania, visitò le mogli del re e insegnò loro a venerare Dio alla maniera tradizionale dei Giudei;
Libro XX:35 ed anzi, è per mezzo di esse che fu portato alla conoscenza di Izate e, con la cooperazione delle donne, ammaestrò anche lui. E allorché suo padre lo chiamò nell'Adiabene, Anania lo accompagnò obbedendo alle molte insistenza di
lui. E così avvenne che Elena, ammaestrata anch'essa da un altro giudeo, fu portata (ad aderire) alle loro leggi.
Libro XX:36 Quando Izate giunse ad Adiabene per prendersi il regno e vide i suoi fratelli e altri congiunti in catene, rimase dispiaciuto per ciò che era avvenuto.
Libro XX:37 Giudicando cosa empia sia ucciderli sia tenerli in catene, d'altra parte giudicando rischioso trattenere con lui, ma non in prigione, tenendo sempre presente il risentimento per gli affronti ricevuti, ne mandò alcuni a Roma da Claudio Cesare, con i loro figli come ostaggi e con la stessa scusa (altri) li mandò da Artabano re dei Parti.
Libro XX:38 - 4. Quando Izate ebbe conoscenza che sua madre provava molto piacere nella religione giudaica, anch'egli si affrettò ad apprenderla meglio; siccome riteneva che non sarebbe stato schiettamente giudeo a meno che fosse circonciso, era pronto ad agire di conseguenza.
Libro XX:39 Ma appena la madre lo seppe tentò di distoglierlo affermando che questa era una mossa rischiosa. Poiché, diceva, lui era un re; e se i sudditi fossero venuti a sapere che era devoto a riti strani e a loro stessi forestieri, ne sarebbe derivata molta disaffezione e non avrebbero tollerato di essere governati da un Giudeo.
Libro XX:40 Oltre a questo avvertimento, lei escogitò ogni altro mezzo per trattenerlo. Lui riferì tali argomenti ad Anania; e in questo era d'accordo col padre della madre, non solo, ma affermò pure che qualora non fosse capace a distogliere Izate, lo avrebbe abbandonato e avrebbe lasciato il paese.
Libro XX:41 Diceva, infatti, di temere che qualora la cosa si divulgasse dappertutto, con molta verosimiglianza sarebbe stato punito come personalmente responsabile di avere insegnato al re pratiche sconvenienti. Il re, aggiunse, poteva venerare Dio senza essere circonciso, se veramente intendeva aderire al Giudaismo, poiché era questo che contava molto, più della circoncisione.
Libro XX:42 Gli disse ancora, che Dio stesso l'avrebbe perdonato se, costretto dalla necessità e dal timore dei sudditi, avesse mancato di adempiere questo rito. E così, per il momento, il re si lasciò convincere dai suoi argomenti.
Libro XX:43 Siccome non aveva abbandonato interamente il suo desiderio, quando giunse un altro Giudeo dalla Galilea di nome Eleazaro, che aveva fama di essere estremamente severo sulle patrie leggi, questi lo spinse ad adempiere il rito.
Libro XX:44 Venuto a salutarlo, lo trovò che leggeva la legge di Mosè e gli disse: “Nella tua ignoranza, o re, sei colpevole della più grande offesa contro la legge, e quindi contro Dio. Perché non solo devi semplicemente leggere la legge, ma devi ancora fare quanto in essa è comandato.
Libro XX:45 Fino a quando seguiti a essere incirconciso? Se tu non hai ancora letto la legge su questo argomento, leggila ora, di modo che tu possa conoscere l'empietà che commetti”.
Libro XX:46 Udite queste parole, il re non indugiò più. Si ritirò in un'altra stanza e chiamato il suo medico eseguì il rito prescritto. Poi mandò da sua madre e dal maestro Anania e li informò che aveva eseguito il rito.
Libro XX:47 Immediatamente restarono stupiti e colpiti da timore stragrande: qualora venisse provato che aveva compiuto quell'atto, il re rischiava di perdere il trono, in quanto i suoi sudditi non si sarebbero sottomessi a un governo retto da un uomo devoto a pratiche straniere e loro stessi sarebbero stati posti in pericolo, perché è ad essi che sarebbe data la colpa.
Libro XX:48 Dio però impedì che le loro paure si realizzassero. Sebbene Izate e i suoi figli fossero spesso minacciati da pericoli, Dio li custodì, aprendo loro un sentiero per salvarli da situazioni disperate. Così Dio dimostrò che coloro che hanno gli occhi fissi su di Lui e confidano unicamente in Lui, non perdono la ricompensa. Ma riferirò questi eventi in un altro momento.
Elena visita Gerusalemme
Libro XX:49 - 5. Intanto Elena, madre del re, vedendo il regno tranquillo, il figlio felice e ammirato da tutti gli uomini, anche dagli stranieri, grazie alla prudenza elargitagli da Dio, ebbe il desiderio di recarsi nella città di Gerusalemme, venerare quivi nel tempio di Dio, famoso per tutto il mondo e offrire sacrifici di ringraziamento. Pregò quindi il figlio che le concedesse di partire.
Libro XX:50 Izate ne fu entusiasta, acconsentì alla domanda della madre, fece i preparativi per il viaggio, la fornì di grande quantità di denaro e la scortò per un lungo tratto, e lei proseguì il suo viaggio per la città di Gerusalemme.
Libro XX:51 La sua venuta fu di grande utilità per il popolo di Gerusalemme, perché in quel tempo la città era rattristata dalla carestia e molta gente moriva perché sprovvista del denaro per acquistare ciò di cui abbisognava. La regina Elena inviò i suoi attendenti ad Alessandria per acquistare ingenti quantità di grano ed altri a Cipro per carichi di fichi secchi.
Libro XX:52 Gli attendenti ritornarono presto con le provviste che poi lei distribuì secondo il bisogno. Per la sua beneficenza lasciò un nome famoso che resterà per sempre glorioso tra tutto il nostro popolo.
Libro XX:53 Quando Izate, suo figlio, seppe della carestia, anch'egli mandò ai capi di Gerusalemme una grande somma di denaro. La distribuzione di queste somme ai bisognosi, liberò molti dai disagi della carestia. Lascio a un altro momento il racconto dei benefici compiuti da questa coppia reale per la nostra città.
Artabano cerca aiuto da Izate
Libro XX:54 - III, I. - Artabano, re dei Parti, avendo scoperto che i satrapi avevano teso una congiura contro di lui e vedendo che non si sentiva sicuro restando con essi, decise di rifugiarsi da Izate. Il suo scopo era di trovare in lui una persona che lo salvasse e, se possibile, lo rimettesse sul trono.
Libro XX:55 Egli lo raggiunse col seguito di un migliaio di congiunti e di assistenti; e incontrò Izate per la via.
Libro XX:56 Artabano lo conosceva bene, ma non fu riconosciuto da Izate, il quale si fermò affianco a lui e per prima cosa lo rivedo conforme all'uso del paese. Poi parlò: “O re, non essere indifferente verso di me, tuo supplice, né giudicare vile la mia domanda. Io, infatti, sono stato umiliato da un colpo di sfortuna che ha scambiato la mia regalità in una vita di comune cittadino, e sono bisognoso del tuo aiuto.
Libro XX:57 Guarda l'instabilità della fortuna e considera che la lungimiranza per me, è pure lungimiranza per te; se, infatti, io sono una persona trascurata dagli altri e lasciata invendicata, molti saranno più baldanzosi contro altri re”.
Libro XX:58 Così parlò con le lacrime agli occhi e a capo chino. Quando Izate udì il suo nome e vide Artabano affianco a lui lamentare, supplice, la propria sorte, scese subito da cavallo e disse:
Libro XX:59 “Fatti coraggio, o re, non atterrirti per la condizione presente come se non avessi più rimedio. Presto ci sarà un cambiamento improvviso che porrà fine alla tua tristezza. Tu troverai in me un amico e alleato più grande di quanto ti aspetti. Poiché o io ti rimetterò sul trono dei Parti o abbandonerò il mio”.
Libro XX:60 - 2. Così dicendo aiutò Artabano a montare in sella ed egli poi lo seguì a piedi, accordandogli questo onore poiché il re più grande era lui. Però quando Artabano vide questo, ne fu angustiato e giurò per la sua presente sfortuna e per l'onore che gli era fatto, che sarebbe smontato se Izate non fosse salito e l'avesse preceduto.
Libro XX:61 Salì, dunque, sul proprio cavallo e lo condusse nel suo regno, gli accordò ogni onore e gli diede il primo posto nelle adunanze e nei banchetti; Izate, infatti, non considerava la sua sfortuna presente, ma la dignità di una volta. Perciò tenne in considerazione il fatto che il cambiamento della fortuna è la sorte di tutti gli uomini.
Libro XX:62 Scrisse in seguito ai Parti sollecitandoli ad accogliere bene il ritorno di Artabano, offrendo la sua mano destra con giuramenti e interponendo la mediazione come garanzia che Artabano non avrebbe fatto nulla contro di essi per quanto essi avevano compiuto contro di lui.
Libro XX:63 I Parti risposero che non erano contrari a riceverlo, ma non era più possibile agire così in quanto avevano già affidato il governo a un altro - il nome di colui che gli era succeduto è Cinnamo - e temevano che facendo così avrebbero scatenato una guerra civile.
Libro XX:64 Udita la loro intenzione lo stesso Cinnamo scrisse ad Artabano - egli, infatti, era stato portato su da lui, ed era un uomo dabbene e onorato - invitandolo a fidarsi di lui e a tornare a riprendere il suo regno.
Libro XX:65 Artabano si fidò di lui e tornò. Cinnamo lo accolse, gli prestò obbedienza, si rivolse a lui come re, tolse il diadema dal proprio capo e lo pose su quello di Artabano.
Libro XX:66 - 3. Così Artabano, mediante l'opera di Izate, riebbe il trono dal quale era stato precedentemente allontanato con un'azione di nobili eminenti. Ma non dimenticò i benefici ricevuti da Izate e lo ricambiò con le più alte onorificenze da essi conosciute.
Libro XX:67 Gli concesse il privilegio di portare la tiara dritta e di dormire su di un letto d'oro, privilegi e simboli esclusivi dei re dei Parti.
Libro XX:68 Gli diede altresì un vasto e fertile territorio che aveva smembrato dal regno d'Armenia; questo distretto è chiamato Nisibi e in esso i Macedoni, nei tempi antichi, fondarono la città di Antiochia che soprannominarono Epimigdonia. Tali furono gli onori ricevuti da Izate dal re dei Parti.
Izate, Vardane e i Romani
Libro XX:69 - 4. Poco tempo dopo Artabano morì e lasciò il regno a suo figlio Vardane. Questi andò da Izate in merito alla guerra contro i Romani e si studiò di persuaderlo a prendere parte a una campagna e a preparare una forza ausiliare.
Libro XX:70 Ma non riuscì a convincerlo. Perché, ben conoscendo la potenza e la fortuna dei Romani, Izate pensava che Vardane tentasse l'impossibile;
Libro XX:71 inoltre era ancora più riluttante perché aveva cinque figli ancora in tenera età (inviati) a Gerusalemme affinché imparassero bene la nostra lingua e cultura, inoltre sua madre era andata poi a venerare (Dio) nel tempio, come dissi precedentemente. Dissuadeva perciò Vardane descrivendogli di continuo le risorse e le conquiste dei Romani nell'intento che tali racconti lo avrebbero messo sufficientemente in guardia facendogli deporre ogni volontà di guerra.
Libro XX:72 Ma il Parto, inasprito, dichiarò guerra a Izate. Da questa campagna, tuttavia, non trasse alcun vantaggio; Dio infranse, fin dall'inizio, le sue attese.
Libro XX:73 E, infatti, conosciuta l'intenzione di Vardane e la sua decisione di fare guerra ai Romani, i Parti lo uccisero e diedero il governo a suo fratello Cotarde.
Libro XX:74 Poco dopo, però, fu ucciso anche lui da una cospirazione; gli succedette il fratello Vologese, il quale affidò ai suoi due fratelli, nati dallo stesso
padre, le posizioni di potere; la Media a Pacoro, il più anziano; l'Armenia al più giovane, Tiridate.
Conversione al Giudaismo,
guerra degli Arabi e dei Parti
Libro XX:75 - IV, I. - Il fratello di Izate, Monobazo, e i suoi parenti, costatando che il re in merito della sua pietà verso Dio aveva conquistato l'ammirazione di tutti gli uomini, si sentirono sospinti ad abbandonare la religione nazionale e adottare le pratiche dei Giudei.
Libro XX:76 Tuttavia il fatto venne scoperto e manifestato ai loro sudditi. I nobili ne furono sdegnati, ma non manifestarono il loro sdegno, ma lo serbarono nel cuore e ansiosamente cercarono l'occasione opportuna per fare loro scontare la vendetta dell'azione compiuta.
Libro XX:77 Di conseguenza scrissero ad Abia, re degli Arabi, promettendogli tanto denaro qualora accettasse di muovere guerra al loro re; promisero di abbandonarlo al primo incontro, poiché intendevano punirlo, visto che era giunto persino a odiare i loro costumi. Compiuti mutui giuramenti di lealtà, esortarono Abia a fare presto.
Libro XX:78 Il re arabo acconsentì e, con un grande esercito, andò contro Izate. Quando stava per avvenire lo scontro, prima che iniziasse la battaglia, a un segno prestabilito, i nobili abbandonarono Izate con la pretesa che erano presi dal panico, volsero le spalle al nemico e si diedero alla fuga.
Libro XX:79 Ma Izate non si smarrì: avvenutosi di essere stato tradito da parte dei nobili, si ritirò personalmente nell'accampamento, indagò sulla causa della fuga e, saputo che si erano uniti alle forze arabe, condannò a morte i colpevoli.
Libro XX:80 Il giorno appresso attaccò la battaglia, abbattè un gran numero di nemici, costrinse il resto alla fuga, indusse lo stesso re a fuggire e nascondersi in una fortezza chiamata Arsamo, presa poi dopo un accanito combattimento; asportò tutto il numeroso bottino ivi contenuto e se ne tornò ad Adiabene. Non catturò Abia vivo, perché, vistosi accerchiato da ogni parte, si uccise, prima di trovarsi intrappolato e in mano di Izate.
Izate e il re dei Parti
Libro XX:81 - 2. Fallito il primo tentativo dei nobili di Adiabene, allorché Dio li consegnò in mano del re, non per questo se ne stettero tranquilli; ma scrissero un'altra lettera e questa volta a Vologese, re dei Parti, incitandolo a uccidere Izate e mettere su di loro un altro padrone di sangue parto; perché, dicevano, di avere preso in odio il loro re che aveva tradito i costumi della nazione ed era rimasto affascinato da pratiche straniere.
Libro XX:82 Udito questo, il re dei Parti fu spinto a cercare di fare la guerra, ma, non avendo un valido pretesto, mandò un messo a chiedere a Izate la restituzione di quei segni onorifici che gli erano stati concessi da suo padre; in caso contrario, gli avrebbe dichiarato guerra.
Libro XX:83 Alla notizia portatagli dal messaggero, Izate restò molto turbato, pensando che la restituzione avrebbe leso gravemente il suo onore in quanto sarebbe apparso come se il suo agire fosse dettato dalla paura.
Libro XX:84 Sentendo però che il Parto anche dopo la restituzione non avrebbe mutato i suoi sentimenti, in questo singolare pericolo, decise di affidarsi alla protezione di Dio.
Libro XX:85 Giunse, infatti, alla conclusione di avere in Dio il più grande degli alleati. Rinchiuse i figli e le mogli nelle fortezze più sicure, ripose nelle torri tutto il frumento e diede fuoco a tutta l'erba dei pascoli. Compiuti questi preliminari, stette in attesa del nemico.
Libro XX:86 Il Parto giunse con un'ampia forza di fanteria e cavalleria, prima di quanto si aspettasse, perché aveva fatto ricorso a marce forzate e aveva eretto un campo lungo il fiume che divide la Media dall'Adiabene. Izate aveva con sé seimila cavalieri ed eresse il proprio campo non lungi da quello.
Libro XX:87 Un messaggero inviato dal Parto andò da Izate a esporgli la vastità dell'impero parto e a fargli presente che si estendeva dal fiume Eufrate fino alla Bactria; aggiunse ancora l'elenco dei re ad esso soggetti.
Libro XX:88 E minacciò Izate che avrebbe pagato molto cara l'ingratitudine dimostrata verso i suoi padroni e anche il Dio da lui venerato sarebbe stato incapace di liberarlo dalle mani del re.
Libro XX:89 Dopo che il messaggero disse queste parole, Izate replicò che era ben cosciente che l'impero parto era ben più forte del proprio. Dopo tale risposta, si diede interamente a supplicare il favore divino. Si prostrò a terra e si
sparse il capo di cenere; poi digiunò insieme con sua moglie e i figli, volgendosi a Dio con queste parole.
Libro XX:90 “Se non è invano, O Signore Padrone, che ho avuto un assaggio della Tua bontà, e ho creduto che Tu sei il primo e l'unico e legittimo Signore, vieni in mio aiuto a difendermi dai miei nemici, non per amor mio, ma anche per la Tua potenza contro la quale ardirono innalzarsi.
Libro XX:91 Così supplicava con lacrime e lamenti; e Dio l'esaudì. In quella stessa notte Vologese ricevette lettere nelle quali si diceva che, presumendo la sua assenza da casa, Dahe e Sace avevano invaso la regione dei Parti con un grande esercito e la stavano saccheggiando. Di conseguenza egli, con un'amara delusione, si ritirò. Così Izate sfuggì alle minacce dei Parti con l'aiuto della provvidenza di Dio.
Morte di Elena e di Izate,
sepolti a Gerusalemme
Libro XX:92 - 3. Non molto tempo dopo Izate morì, avendo l'età di cinquantacinque anni e ventiquattro di regno; lasciò ventiquattro figli e ventiquattro figlie.
Libro XX:93 Erano suoi ordini che Monobazo, suo fratello, gli doveva succedere sul trono. Così Monobazo fu ricompensato per avere mantenuto con fedeltà il trono per suo fratello, durante l'assenza da casa di quest'ultimo, dopo la morte di suo padre.
Libro XX:94 Sua madre, Elena, dolorosamente afflitta alla notizia della morte del figlio, come era da aspettarsi dalla madre di un figlio così profondamente religioso. Consolata, tuttavia, allorché udì che la successione era passata al suo figlio primogenito, si affrettò a raggiungerlo. Arrivò ad Adiabene, ma non sopravvisse granché a suo figlio Izate, perché, oppressa dall'età e dal dolore della sua tristezza, esalò presto il suo ultimo respiro.
Libro XX:95 Monobazo mandò le sue ossa e quelle di suo fratello a Gerusalemme con istruzioni che dovevano essere sepolte nelle tre piramidi erette dalla madre a distanza di tre stadi dalla città di Gerusalemme.
Libro XX:96 Quanto fece il re Monobazo nell'epoca della sua vita, lo narrerò dopo.
Eventi accaduti nella Giudea
Libro XX:97 - V, I. - Durante il periodo in cui Fado era procuratore della Giudea, un certo sobillatore di nome Teuda persuase la maggior parte della folla a prendere le proprie sostanze e a seguirlo fino al fiume Giordano. Affermava di essere un profeta al cui comando il fiume si sarebbe diviso aprendo loro un facile transito.
Libro XX:98 Con questa affermazione ingannò molti. Fado però non permise loro di raccogliere il frutto della loro follia e inviò contro di essi uno squadrone di cavalleria che piombò inaspettatamente contro di essi uccidendone molti e facendone altri prigionieri; lo stesso Teuda fu catturato, gli mozzarono la testa e la portarono a Gerusalemme.
Libro XX:99 Questi furono gli eventi che accaddero ai Giudei nel periodo in cui era procuratore Cuspio Fado.
Libro XX:100 - 2. Il successore di Fado fu Tiberio Alessandro, figlio di quell'Alessandro che era stato alabarca in Alessandria e che sorpassava tutti i suoi cittadini sia per nobiltà sia per ricchezza; e superò anche suo figlio Alessandro nella sua devozione religiosa verso Dio perché non desistette mai dalle pratiche del suo popolo.
Libro XX:101 Fu sotto l'amministrazione (di Tiberio Alessandro) che in Giudea avvenne una grave carestia, durante la quale la regina Elena comprò grano dall'Egitto con una grande quantità di denaro e lo distribuì ai bisognosi, come ho detto sopra.
Libro XX:102 Oltre a ciò, Giacomo e Simone, figli di Giuda Galileo, furono posti sotto processo e per ordine di Alessandro, vennero crocifissi; questi era il Giuda che - come ho spiegato sopra aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani, mentre Quirino faceva il censimento in Giudea.
Libro XX:103 Erode, re della Calcide, rimosse Giuseppe, figlio di Camei, dalla carica di sommo sacerdote e assegnò come successore all'ufficio Anania, figlio di Nebedeo. Come successore di Tiberio Alessandro, venne Cumano.
Libro XX:104 Erode, fratello del grande re Agrippa, morì nell'ottavo anno del regno di Claudio Cesare, lasciando tre figli: Aristobulo, natogli dalla prima
moglie, e Bereniciano, e Ircano, natigli da Berenice, sorella di suo fratello. Claudio Cesare assegnò al giovane Agrippa il regno di Erode.
Scontro fra Giudei e Romani nei
giorni di Pasqua
Libro XX:105 - 3. Mentre Cumano amministrava gli affari della Giudea nella città di Gerusalemme avvenne una sedizione il cui esito fu che persero la vita molti Giudei; ma prima narrerò la causa che condusse a questa sedizione.
Libro XX:106 Allorché era iniziata la festa chiamata Pasqua nella quale, secondo il nostro costume si mangia pane azzimo, si raccoglie molta gente da tutti i quartieri; Cumano, temendo che tutta quella gente potesse essere occasione di una sedizione, ordinò a una compagnia di soldati di prendere le armi e porsi di guardia ai portici del tempio per sedare qualsiasi tumulto potesse sorgere.
Libro XX:107 Questa era una pratica usuale degli altri procuratori, durante le festività della Giudea.
Libro XX:108 Nel quarto giorno della festa, un soldato scoprì i suoi genitali e li mostrò alla folla - azione che suscitò lo sdegno e il furore di tutti gli spettatori che raccolsero l'insulto non come rivolto a loro, bensì come una bestemmia contro Dio; alcuni, anzi, più audaci, accusavano Cumano, affermando che il soldato era stato istigato da lui.
Libro XX:109 Cumano, udite queste voci, fu non poco sdegnato per queste ingiuriose osservazioni, ma li ammonì semplicemente di porre fine a questa loro brama di rivolta e di non scatenare disordini durante la festività.
Libro XX:110 Ciononostante non riusciva a persuaderli e attaccavano lui con villanie sempre più gravi; allora diede ordine che tutto l'esercito prendesse le armi e andasse nell'Antonia: come ho detto altre volte, questa è una fortezza sovrastante il tempio.
Libro XX:111 Vedendo l'arrivo dei soldati, la folla si intimorì e iniziò a fuggire; ma le uscite erano strette, ed essi, supponendo di avere il nemico alle spalle, si spingevano e molti, in quella fuga, restavano schiacciati e morivano.
Libro XX:112 Il numero di coloro che in quell'occasione perirono è di ventimila. E così i restanti giorni della festività si volsero in lutto: tutti quanti, dimentichi delle preghiere e dei sacrifici, non facevano che piangere e lamentarsi. Tanti furono i danni prodotti dalla sfacciataggine di un singolo soldato.
Libro XX:113 - 4. Ancora non si era spento il loro pianto, che li colse un'altra disavventura. Alcuni sediziosi rivoluzionari incontrarono Stefano, schiavo di Cesare, lungo una via pubblica, lontana dalla città circa cento stadi e lo spogliarono di tutto quanto aveva.
Libro XX:114 Quando Cumano ne venne a conoscenza, mandò subito dei soldati con l'ordine di saccheggiare i villaggi vicini e portargli, in catene, gli uomini più autorevoli di quei villaggi, di modo che potesse esigere una giusta vendetta per l'affronto fatto.
Libro XX:115 Mentre andavano a saccheggiare dei villaggi, un soldato trovò una copia della legge di Mosè, custodita in uno dei villaggi, la strappò in due al cospetto di tutti, con l'aggiunta di bestemmie e violente maledizioni.
Libro XX:116 I Giudei, venutone a conoscenza, si unirono in gran numero, e discesero a Cesarea, dove allora si trovava Cumano e lo supplicarono di vendicare (il fatto) non per sé ma per Dio, le cui leggi erano state oltraggiate; dicevano, infatti, che per essi non era tollerabile la vita, quando le leggi della loro patria erano così impunemente insultate.
Libro XX:117 Cumano, allarmato al pensiero di una nuova rivolta popolare, dopo essersi consigliato con i suoi amici, decapitò il soldato che aveva oltraggiato le leggi; così prevenne una sollevazione, che stava per accendersi una seconda volta.
Querele tra Samaritani e Giudei
Libro XX:118 - VI, I. - Sorsero insurrezioni anche tra i Samaritani e i Giudei per il motivo seguente. Nel periodo di una festa, i Galilei nel viaggio per la Città santa, avevano la costumanza di passare per il territorio samaritano. In un'occasione, mentre attraversavano un borgo chiamato Ginae, che si trova sul confine tra Samaria e la Grande Pianura, avvenne uno scontro con i Galilei e ne uccisero un gran numero.
Libro XX:119 Gli uomini principali della Galilea, venuti a conoscenza del fatto, si recarono da Cumano a supplicarlo che facesse ricerca degli assassini di coloro che erano stati uccisi; ma egli, corrotto con doni dai Samaritani, non si curò di vendicarli.
Libro XX:120 Indignati da questo, i Galilei istigarono le masse giudaiche a prendere le armi per vendicare la propria libertà; la schiavitù, dicevano, è per sé acerba, ma quando è unita all'insolenza, è proprio intollerabile.
Libro XX:121 Le autorità cercavano di quietarli, attenuando il disordine e promettendo di indurre Cumano a punire gli autori della strage. Ma le masse non dettero loro ascolto; anzi, presero le armi e invocarono l'assistenza di Eleazaro, figlio di Dineo - costui era un brigante che per molti anni era stato tra le montagne - e diedero fuoco e saccheggiarono alcuni villaggi dei Samaritani.
Libro XX:122 Quando ne fu informato, Cumano prese uno squadrone di Sebasteniani e quattro unità di fanteria, armò i Samaritani e marciò contro i Giudei e, in uno scontro, ne uccisero molti, ma la maggior parte la catturò.
Libro XX:123 I Gerosolimitani più ragguardevoli, per onore e per sangue, appena constatarono in quale abisso di calamità si erano messi, cambiarono il loro vestito col sacco, coprirono il capo di cenere e presero a scongiurare a lungo i sediziosi. Li scongiuravano ponendo dinnanzi ai loro occhi come la regione sarebbe stata rasa al suolo, il tempio dato alle fiamme e loro stessi, con mogli e figli, ridotti in schiavitù. Li scongiuravano di riflettere, gettare le armi, ritornare alle loro case e indirizzare il loro futuro a una vita tranquilla. E così dicendo ebbero la meglio.
Libro XX:124 La folla si disperse e i briganti fecero ritorno alle loro roccaforti. Da quel tempo l'intera Giudea fu infestata da bande di briganti.
Libro XX:125 - 2. I capi dei Samaritani si recarono a incontrare Numidio Quadrato, governatore della Siria, che a quell'epoca si trovava a Tiro, e accusarono i Giudei di avere incendiato e saccheggiato i loro villaggi;
Libro XX:126 confessavano che la loro indignazione non era tanto dovuta al trattamento ricevuto, quanto al disprezzo contro i Romani dimostrato dai Giudei. Poiché, dicevano, i Giudei dovevano ricorrere al tribunale dei Romani se avevano ricevuto qualche ingiustizia dai Samaritani e non, come avevano fatto ora, fare scorrerie sul territorio Samaritano, come se non avessero i Romani come loro governatori. Andavano dunque a lui per ottenere giustizia.
Libro XX:127 Queste erano le accuse dei Samaritani. I Giudei asserivano che la responsabilità dei tumulti e dei combattimenti era dei Samaritani, ma più di loro era di Cumano, da loro corrotto con doni affinché passasse sotto silenzio l'uccisione delle vittime giudaiche.
Libro XX:128 Udite le parti, Quadrato differì ogni decisione, asserendo che avrebbe annunziato la sua decisione quando, giunto in Giudea, avesse indagato il caso in modo più accurato. E così i Samaritani se ne partirono senza avere ottenuto il loro scopo.
Libro XX:129 Non molto tempo dopo, Quadrato giunse in Samaria, e qui, dopo avere ascoltato (tutto) interamente, giunse alla conclusione che la responsabilità dei disordini era dei Samaritani. Allora crocifisse i Samaritani e i Giudei che, come aveva saputo, avevano preso parte alla ribellione, e Cumano aveva fatto prigionieri.
Libro XX:130 Di lì andò a Lidda, un villaggio di ampiezza non minore di una città e quivi si sedette in tribunale e ascoltò nuovamente il caso dei Samaritani. Qui fu informato che un capo dei Giudei di nome Doeto con quattro rivoluzionari avevano istigato la folla a ribellarsi ai Romani.
Libro XX:131 Quadrato condannò a morte anche costoro. Mise in catene il sommo sacerdote Anania, il capitano Anano e i loro seguaci e li mandò a Roma per rendere conto delle loro azioni a Claudio Cesare.
Libro XX:132 Ordinò poi che i capi dei Samaritani e dei Giudei, il procuratore Cumano e Celere, che era tribuno militare, partissero per l'Italia per comparire dinanzi alla corte imperiale in merito alla lite sorta tra loro.
Libro XX:133 Egli (Quadrato) temendo una nuova ribellione del popolo giudaico, si recò in visita alla città di Gerusalemme, che trovò calma mentre celebrava una delle feste religiose tradizionali. Soddisfatto e tranquillo che da parte loro non ci fosse alcuna rivolta. Li lasciò che celebravano la festa e se ne ritornò ad Antiochia.
Libro XX:134 - 3. A Cumano, ai capi Samaritani e i loro compagni che erano stati inviati a Roma dall'imperatore, fu assegnato un giorno nel quale sarebbe stata discussa la loro controversia.
Libro XX:135 I liberti di Cesare e i suoi amici manifestavano una grande parzialità per Cumano e i Samaritani, e avrebbero avuto la meglio sui Giudei se Agrippa, il Giovane, che si trovava a Roma e constatava che i capi giudei stavano perdendo la gara se non fossero urgentemente ricorsi ad Agrippina, moglie dell'imperatore, affinché persuadesse il marito a concedere un'udienza rispettando la legge e punendo gli istigatori delle rivolte.
Libro XX:136 E Claudio fu favorevolmente disposto da questa supplica. Ascoltò il caso e, scoperto che i Samaritani erano stati i primi a muovere i torbidi, ordinò che quelli tra loro che erano andati davanti a lui fossero messi a morte, condannò Cumano all'esilio e ordinò che il tribuno Celere fosse portato a Gerusalemme e qui fosse trascinato per tutta la città a pubblico spettacolo e poi ucciso.
Felice, procuratore della Giudea
Libro XX:137 - VII, I. - Allora Claudio inviò Felice, fratello di Pallante, a presiedere gli affari della Giudea.
Libro XX:138 Compiuti i dodici anni del suo regno, conferì ad Agrippa la tetrarchia di Filippo con la Batanea, aggiungendovi la Traconitide e Lisania, già tetrarchia di Abila; ma gli tolse la Calcide dopo che l'aveva governata per quattro anni.
Libro XX:139 Ricevuto tale dono dall'imperatore, Agrippa diede sua sorella Drusilla in matrimonio ad Azizo, re di Emesa, che aveva acconsentito ad essere circonciso. Epifane, figlio del re Antioco aveva rifiutato il matrimonio per non aver voluto abbracciare la religione dei Giudei, sebbene in precedenza avesse promesso di fare così al padre di lei.
Libro XX:140 Agrippa diede pure sua figlia Mariamme in matrimonio ad Archelao, figlio di Elcia, al quale suo padre l'aveva promessa. Da questo matrimonio nacque una figlia chiamata Berenice.
Libro XX:141 - 2. Dopo poco tempo il matrimonio di Drusilla con Azizo si sciolse nelle seguenti circostanze.
Libro XX:142 Nel tempo in cui Felice era procuratore della Giudea, la osservò: era infatti più bella di tutte le donne e nacque una passione per lei. Le mandò uno dei suoi amici, un Giudeo cipriota di nome Atomo, che si faceva passare per
mago, per convincerla ad abbandonare il marito e sposare Felice. Felice le prometteva di renderla estremamente felice, purché lei non lo respingesse.
Libro XX:143 Essendo lei infelice e desiderando sottrarsi alla malizia della sorella Berenice - infatti si parlava troppo di Drusilla a motivo della sua bellezza - fu persuasa a trasgredire le patrie leggi e sposare Felice. Da lui ebbe un figlio al quale lei diede il nome di Agrippa.
Libro XX:144 In qual modo questo giovane e sua moglie siano scomparsi all'epoca dell'eruzione del Vesuvio al tempo di Tito Cesare, lo narrerò appresso.
Libro XX:145 - 3. Berenice, dopo la morte di Erode che era suo zio e suo marito, visse a lungo come vedova; ma quando si sparse la voce e si credette che lei avesse legami con il fratello, lei indusse Polemone, re della Cilicia, ad accettare la circoncisione e prenderla in moglie. Lei pensava che in questo modo avrebbe dimostrato la falsità di tali voci;
Libro XX:146 ma Polemone era mosso soprattutto dalla ricchezza di lei. Il matrimonio non durò a lungo perché Berenice, a quanto si diceva, per sfrenata licenziosità, abbandonò Polemone; e per lui lo scioglimento del matrimonio e l'abbandono dei costumi giudaici fu tutt'uno.
Libro XX:147 Nello stesso tempo anche Mariamme abbandonò Archelao e sposò Demetrio, uno dei più nobili e ricchi dei Giudei di Alessandria; in quel tempo costui aveva l'ufficio di alabarca. Lei ebbe da lui un figlio che chiamò Agrippino. Ma di queste persone parlerò dettagliatamente appresso.
Morte di Claudio ed elezione di Nerone
Libro XX:148 - VIII, I. - Dopo tredici anni, otto mesi e venti giorni di regno, Claudio Cesare morì. Ci fu chi diceva che era stato avvelenato dalla moglie Agrippina; il padre di lei era Germanico, fratello dell'imperatore, il precedente marito era Domizio Ahenobarbo, uno dei personaggi più illustri della città di Roma.
Libro XX:149 Alla morte di Domizio rimase vedova per lungo tempo, fino a quando Claudio la sposò; lei portò con sé il ragazzo Domizio, che portava il nome del padre, Claudio aveva ucciso per gelosia la precedente moglie, Messalina, dalla quale aveva avuto due figli, Britannico e Ottavia;
Libro XX:150 egli aveva già avuto una figlia, la primogenita, Antonia, natagli dalla prima moglie, Petina. Poi egli promise Ottavia a Nerone; perciò l'imperatore lo chiamò più tardi Domizio, quando lo adottò come figlio.
Libro XX:151 - 2. Agrippina, temendo che Britannico, fattosi uomo, potesse ereditare l'ufficio di suo padre, e desiderando prevenire questo carpendo l'impero per il proprio figlio, a quanto si dice, escogitò la morte di Claudio.
Libro XX:152 Immediatamente lei mandò Burro, prefetto della guardia pretoriana, e con lui i tribuni militari e i liberti più influenti a condurre Nerone al campo per acclamarlo imperatore.
Libro XX:153 Succeduto al trono in questo modo, Nerone cospirò la morte di Britannico col veleno, mantenendo pubblicamente il segreto; non molto tempo dopo uccise apertamente la propria madre; questa fu la ricompensa che le diede non solo perché lei gli aveva dato la vita, ma anche perché fu grazie agli accorgimenti di lei che aveva ottenuto il trono dell'impero romano; mise a morte anche Ottavia, alla quale era sposato e così pure molti uomini illustri, con l'accusa di cospirazione contro di lui.
Libro XX:154 - 3. Tralascio di scrivere oltre su questo argomento. Molti sono gli storici che scrissero la storia di Nerone: alcuni, per gratitudine, essendo stati da lui trattati bene, non ebbero cura della verità; altri, per odio e rabbia verso di lui, hanno mentito, senza riguardo, dicendo falsità e meritano censura.
Libro XX:155 Non mi sorprendo di quanti hanno mentito su Nerone, visto che scrivendo dei suoi predecessori non si sono attenuti ai fatti storici; certo, non avevano odio per quegli imperatori, dato che vissero molto tempo dopo di loro.
Libro XX:156 Chi non ha cura della verità, scriva come gli aggrada, perché così gli piace.
Libro XX:157 Noi, però, il cui obiettivo è la verità, vediamo di non dare più di una breve menzione ai soggetti non connessi al nostro argomento. D'altra parte la nostra esposizione della vicenda del mio popolo, i Giudei, non è semplicemente accidentale; e nella mia esposizione non esito a dare una narrazione piena sia delle nostre sfortune sia dei nostri errori. Ed ora ritorno al racconto delle cose nostre.
Regioni date da Nerone ad Agrippa
Libro XX:158 - 4. Nel primo anno di regno di Nerone, morì Azizo, sovrano di Emesa, e gli succedette sul trono il fratello Soemo. Il governo dell'Armenia Minore fu posto da Nerone in mano ad Aristobulo, figlio di Erode, re della Calcide;
Libro XX:159 e affidò ad Agrippa parte della Galilea ordinando che la città di Tiberiade e la Tarichea fossero a lui soggette; gli diede anche Giulia, città della Perea e quattordici villaggi nei suoi dintorni.
Situazione Sociale della Giudea
Libro XX:160 - 5. Intanto gli affari della Giudea stavano andando di male in peggio; perché la regione era nuovamente infestata da bande di briganti e impostori che ingannavano la gente.
Libro XX:161 Non passava giorno che Felice non prendesse e condannasse a morte molti di questi impostori e ribelli. Con un inganno catturò anche Elea-zaro, figlio di Dineo, che aveva organizzato una compagnia di ribelli: con la promessa che non avrebbe corso alcun pericolo, Felice lo indusse ad andare da lui; Felice poi lo catturò e lo mandò a Roma in catene.
Libro XX:162 Felice era risentito verso il sommo sacerdote Gionata a motivo dei frequenti avvertimenti di amministrare meglio gli affari della Giudea; Gionata, infatti, temeva di incorrere nella censura della gente, in quanto, era stato lui che aveva domandato a Cesare di inviare Felice come procuratore della Giudea. Felice trovò un pretesto per allontanare dalla sua presenza un uomo che ormai gli era diventato importuno: incessanti rimproveri annoiano coloro che hanno scelto di agire malamente.
Libro XX:163 Per tale motivo, dunque, con la promessa di una grande somma, Felice corruppe l'amico più fidato di Gionata, nativo di Gerusalemme, di nome Dora, con la promessa di dargli una grande somma da portare ai briganti per attaccare Gionata e ucciderlo. Dora accettò ed escogitò di farlo assassinare dai briganti nel seguente modo.
Libro XX:164 Alcuni di questi briganti salirono in città come se avessero l'intenzione di venerare Dio, ma sotto le vesti portavano i pugnali, e mischiatisi con la gente attorno a Gionata, lo assassinarono.
Libro XX:165 Dato che gli assassini rimasero impuniti, da quel tempo in poi, i ribelli, con perfetta impunità, solevano andare in città durante le festività con le armi nascoste allo stesso modo e mescolati tra la folla. In questo modo alcuni uccisero nemici personali, altri uccisero perché pagati. Commettevano tali assassini non solo in altre parti della città, ma anche, in alcuni casi, nel santuario; perché fin là dentro ordinavano di spargere il sangue delle loro vittime, giacché neppure in questo vedevano una dissacrazione.
Libro XX:166 A mio modo di vedere, è questo il motivo per cui anche Dio stesso, disgustato dalla loro empietà, volse le spalle alla nostra città, perché giudicò il santuario una dimora non più pura per Lui, condusse contro di noi i Romani, purificò la città col fuoco e condannò alla schiavitù noi, le nostre mogli e i nostri figli. Egli intendeva punirci con queste calamità.
Imbroglioni tra il popolo
Libro XX:167 - 6. I ribelli infestarono la città di tante simili contaminazioni. Perciò impostori e truffatori incitavano la plebe a seguirlo nel deserto;
Libro XX:168 promettendo di mostrare loro indubbi prodigi e segni che sarebbero stati realizzati in armonia del disegno di Dio. Molti si lasciarono persuadere e pagarono il castigo della loro follia; furono, infatti, portati alla presenza di Felice, il quale li punì.
Libro XX:169 In quel tempo venne dall'Egitto a Gerusalemme un uomo che diceva di essere un profeta e suggeriva alle folle del popolino di seguirlo sulla collina chiamata Monte degli Ulivi, che è dirimpetto alla città, dalla quale dista cinque stadi.
Libro XX:170 Costui asseriva che da là voleva dimostrare come a un suo comando sarebbero cadute le mura di Gerusalemme e attraverso di esse avrebbe aperto per loro un ingresso alla città.
Libro XX:171 Udita tale cosa, Felice ordinò ai suoi soldati di prendere le armi; e con una notevole forza di cavalleria e di fanti, uscirono da Gerusalemme e si lanciarono sull'egiziano e sui suoi seguaci uccidendone quattrocento e catturando duecento prigionieri. L'Egiziano fuggì dalla battaglia e si dileguò.
Libro XX:172 Allora i ribelli ancora una volta incitarono il popolo a fare guerra contro i Romani, dicendo di non obbedire loro; e a quanti non li seguivano incendiavano e saccheggiavano i villaggi.
Contesa civile tra Giudei e Siri
Libro XX:173 - 7. Tra i Giudei e i Siri abitanti a Cesarea sorse una querela in merito all'uguaglianza dei diritti civili. I Giudei vendicavano la precedenza perché il fondatore di Cesarea era stato il loro re Erode, di discendenza giudaica; i Siri ammettevano quanto essi asserivano a proposito di Erode, ma facevano osservare che, prima, Cesarea si chiamava Torre di Stratone, e che prima del tempo di Erode non v'era alcun Giudeo che abitasse la città.
Libro XX:174 Venuti a conoscenza della contesa, i magistrati della regione arrestarono i responsabili dell'una e dell'altra parte e li sferzarono bene: così calmarono la contesa, ma non per molto.
Libro XX:175 Perché i Giudei della città, forti della loro ricchezza, erano incuranti dei Siri e presero di nuovo a svillaneggiarli con l'intento di irritarli e provocarono così i Siri contro i Giudei.
Libro XX:176 Seppure inferiori per benessere, i Siri si inorgoglivano per il fatto che la maggioranza di coloro che prestavano servizio militare sotto i Romani provenivano da Cesarea e da Sebaste e per un po' ricambiavano i Giudei con insulti. Ma in seguito Giudei e Siri presero a tirarsi pietre l'uno contro l'altro, fino a tanto che da una parte e dall'altra vi furono feriti e morti. A vincere furono però i Giudei.
Libro XX:177 Quando Felice s'accorse che la contesa aveva preso la forma di una guerra, intervenne subito invitando i Giudei a desistere; e siccome questi non obbedirono, armò i soldati e li scagliò contro di essi; molti furono uccisi e molti di più furono presi vivi; inoltre concesse ai soldati di saccheggiare certe case di cittadini che erano fornite di forti somme di denaro.
Libro XX:178 I Giudei più moderati e quelli di più agiata condizione, allarmati per se stessi, ricorsero a Felice affinché facesse suonare la tromba per raccogliere i soldati e concedere loro perdono per questo fatto, e dare loro un'occasione di pentirsi di tutto ciò. Felice si arrese a fare così.
Libro XX:179 - 8. In questo periodo, il re Agrippa diede il sommo sacerdozio a Ismaele, figlio di Fabi. Costui era un ragazzo.
Libro XX:180 Era allora accesa una mutua inimicizia e lotta di classe tra i sommi sacerdoti, da una parte; e i sacerdoti e i capi della plebaglia di Gerusalemme dall'altra. Ognuna delle fazioni formava e raccoglieva persone temerarie e rivoluzionarie pronte ad agire come i loro capi. E quando si scontravano si servivano di un linguaggio ingiurioso, e si colpivano l'un l'altro con sassi; e non v'era persona che li riprendesse. In città non v'era alcuna autorità, sicché essi agivano in piena libertà.
Libro XX:181 Tale era poi la petulanza vergognosa e l'ardire dei pontefici, che non dubitavano di mandare schiavi sulle aie del grano battuto e prelevare le decime dovute ai sacerdoti, col risultato che i sacerdoti più bisognosi morivano di fame. La violenza delle fazioni contendenti eliminava così ogni giustizia.
Porcio Festo in luogo di Felice
Libro XX:182 - 9. Quando Nerone mandò Porcio Festo come successore di Felice, i capi della comunità ebraica di Cesarea andarono a Roma per accusare Felice. E indubbiamente avrebbe pagato la pena dei suoi misfatti verso i Giudei, se Nerone non avesse avuto troppo riguardo alle suppliche di Pallante, fratello di Felice, che in quel tempo teneva in grandissimo onore.
Libro XX:183 Perciò i capi siri di Cesarea, per mezzo di una ampia offerta, corruppero Berillo, precettore di Nerone e addetto alla segreteria per la corrispondenza greca, e ottennero da Nerone un rescritto che annullava la concessione ai Giudei di uguale diritti civili.
Libro XX:184 Berillo inoltre supplicò l'imperatore, con successo, ottenendo l'autorizzazione con un rescritto. E questo rescritto fornì la base che condusse alle sfortune della nostra nazione. Perciò gli abitanti di Cesarea non appena seppero del rescritto di Nerone, proseguirono la loro contesa contro i Siri fino a tanto che si elevarono le fiamme della guerra.
La Giudea all'arrivo di Festo
Libro XX:185 - 10. Quando Festo arrivò in Giudea, la trovò devastata dai ribelli che incendiavano e saccheggiavano un villaggio dopo l'altro;
Libro XX:186 i cosiddetti sicari, cioè i ribelli, erano a quel tempo particolarmente numerosi. Si avvalevano di pugnali, di forma simile alle scimitarre dei Persiani ma curvi e più simili all'arma che i Romani chiamano sicae, dalla quale questi ribelli prendono il nome perché in questo modo uccisero così tanta gente.
Libro XX:187 Come abbiamo detto prima, costoro, durante le festività, si infiltravano tra la folla che da ogni parte giungeva nella città per devozione, e così assassinavano quelli che volevano; spesso si facevano vedere nei villaggi dei loro nemici, con le armi per saccheggiare e incendiare.
Libro XX:188 Festo mandò un corpo di cavalleria e di fanti contro quelli sedotti da un impostore che aveva promesso la salvezza e la fine dei tumulti, purché lo seguissero nel deserto. La forza inviata da Festo li eliminò tutti e due, l'imbroglione e i suoi seguaci.
La camera di Agrippa e le complicazioni
Libro XX:189 - 11. All'incirca in questo periodo il re Agrippa innalzò nella sua reggia a Gerusalemme una camera, di dimensioni insolite, confinante con il colonnato.
Libro XX:190 La reggia era stata innalzata molto prima dai figli di Asmoneo ed essendo situata in un sito alto, permetteva una vista deliziosa a chi voleva contemplare la città. Il re era innamorato di questa vista e, quando stava a tavola, di lassù, soleva osservare quanto avveniva nel tempio.
Libro XX:191 Considerando questo, le persone più importanti di Gerusalemme ne erano fortemente adirate, perché era contrario alla tradizione spiare quanti entravano nel tempio, e in particolare per le cerimonie sacrificali. Perciò fabbricarono un muro assai alto sul recinto che era all'interno del tempio, verso occidente.
Libro XX:192 L'erezione di questo muro non bloccò soltanto la vista dalla sala da pranzo regia, ma anche la vista dalla parte occidentale del portico che era fuori del tempio, d'onde i Romani, nei giorni di festa, solevano fare il controllo del tempio.
Libro XX:193 Ciò dispiacque moltissimo al re Agrippa e più ancora al procuratore Festo, e quest'ultimo ordinò di abbatterlo. Ma essi supplicarono di
concedere loro il permesso di inviare a questo proposito un'ambasciata a Nerone; poiché, dicevano, non avrebbero sopportato di vivere quando fosse abbattuta una parte del tempio.
Libro XX:194 Festo lo permise ed essi mandarono dieci delle personalità più eminenti, tra esse Ismaele sommo sacerdote ed Elcia il tesoriere.
Libro XX:195 Dopo averli sentiti bene, Nerone non solo approvò quanto fatto, ma acconsentì a lasciare l'edificio così com'era, volendo in ciò accondiscendere a sua moglie Poppea, che era timorata di Dio e favorevole ai Giudei; ella diede ai dieci licenza di partire, ma trattenne in casa sua Elcia e Ismaele come ostaggi.
Libro XX:196 Saputo questo, il re diede il sommo sacerdozio a Giuseppe, soprannominato Kabi, figlio del sommo sacerdote Simone.
Dinastia di Anano, martirio di Giacomo,
fratello di Gesù
Libro XX:197 - IX, I. - Venuto a conoscenza della morte di Festo, Cesare inviò Albino come procuratore della Giudea. Il re poi allontanò Giuseppe dal sommo sacerdozio e gli diede come successore nell'ufficio il figlio di Anano, il quale si chiamava anch'egli Anano.
Libro XX:198 Del vecchio Anano si dice che fu estremamente felice; poiché ebbe cinque figli e tutti, dopo di lui, godettero di quell'ufficio per un lungo periodo, divenendo sommi sacerdoti di Dio; un fatto che non accadde mai ad alcuno dei nostri sommi sacerdoti.
Libro XX:199 Il più giovane Anano che, come abbiamo detto, fu designato al sommo sacerdozio, era una persona di indole franca e oltremodo ardita. Seguiva la scuola dei Sadducei, che, in verità, quando sedevano in giudizio erano più insensibili degli altri Giudei, come già accennato.
Libro XX:200 Con il carattere che aveva, Anano pensò di avere un'occasione favorevole alla morte di Festo mentre Albino era ancora in viaggio: così convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giacomo, fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo, e certi altri, con l'accusa di avere trasgredito la Legge, e li consegnò perché fossero lapidati.
Libro XX:201 Ma le persone più equanimi della città, considerate le più strette osservanti della Legge si sentirono offese da questo fatto. Perciò inviarono segretamente (legati) dal re Agrippa supplicandolo di scrivere una lettera ad Anano che il suo primo passo non era corretto, e ordinandogli di desistere da ogni ulteriore azione.
Libro XX:202 Alcuni di loro andarono a incontrare Albino che era in cammino da Alessandria informandolo che Anano non aveva alcuna autorità di convocare il Sinedrio senza il suo assenso.
Libro XX:203 Convinto da queste parole, Albino inviò una lettera sdegnata ad Anano minacciandolo che ne avrebbe portato la pena dovuta. E il re Agrippa, a motivo della sua azione depose Anano dal sommo pontificato che aveva da tre mesi, sostituendolo con Gesù, figlio di Damneo.
Il procuratore Albino a Gerusalemme
Libro XX:204 - 2. Quando Albino giunse nella città di Gerusalemme, rivolse tutti gli sforzi e fece ogni preparativo per assicurare la pace alla regione sterminando la maggior parte dei sicari.
Libro XX:205 Ora il sommo sacerdote Anania ogni giorno cresceva in reputazione ed era splendidamente ricompensato dalla benevolenza e dalla stima dei cittadini; perché era astuto e li forniva di denaro; ogni giorno offriva doni ad Albino e al sommo sacerdote.
Libro XX:206 (Aveva) però dei servitori assai perversi che, accompagnandosi con la gente più ardimentosa che c'era, si aggiravano per le aie e con la forza portavano via le decime dei sacerdoti;
Libro XX:207 né si astenevano dal percuotere coloro che rifiutavano di dare. I sommi sacerdoti erano colpevoli allo stesso modo dei servitosi e nessuno li poteva fermare. Così accadeva che i sacerdoti, che negli antichi giorni vivevano delle decime, ora erano ridotti a morire di fame.
Azioni dei sicari
Libro XX:208 - 3. Di nuovo i sicari in occasione della festa, che allora si stava celebrando, entrarono di notte in città e rapirono il segretario del generale Eleazaro, figlio del sommo sacerdote Anania e lo legarono;
Libro XX:209 mandarono a dire ad Anania che avrebbero liberato il segretario se lui avesse indotto Albino a liberare dieci di loro che erano stati fatti prigionieri. Anania, sotto tale costrizione, persuase Albino ad aderire alla (loro) istanza.
Libro XX:210 Questo fu l'inizio di guai maggiori. I ribelli escogitarono di avere tra i rapiti l'uno o l'altro della cerchia di Anania che mantenevano sempre confinato e rifiutavano di liberarlo fino a quando avessero in cambio qualcuno dei sicari. Quando divennero di nuovo un numero considerevole, ripresero nuovamente ardire e cominciarono nuovamente a straziare ogni parte della regione.
Attività del re Agrippa e risposta
del popolo
Libro XX:211 - 4. In quel tempo il re Agrippa ampliò Cesarea di Filippo, come si chiamava, e le diede il nome di Neronia in onore di Nerone. Edificò inoltre, con grandissima spesa, un teatro per il popolo di Berito e lo presentò con spettacoli annuali, spendendo in questo progetto molte decine di migliaia di dracme.
Libro XX:212 Inoltre usava dare al popolo grano e distribuire olio di oliva; abbellì anche tutta la città con l'erezione di statue e copie di antiche sculture; trasferì in quel luogo quasi tutte le bellezze del regno. Di conseguenza aumentò l'odio dei sudditi perché li spogliava dei loro averi per abbellire una città straniera.
Libro XX:213 Il re poi depose Gesù, figlio di Damneo, dal sommo sacerdozio e designò suo successore Gesù, figlio di Gamaliel. Perciò sorse una ostilità tra quest'ultimo e il suo predecessore. Ognuno di essi raccolse una banda di gente molto temeraria e spesso avveniva che, dopo lo scambio di insulti, si andasse oltre, pigliandosi a sassate. Anania sovrastava tutti, facendo buon uso della sua ricchezza per attrarre quanti erano disposti a ricevere doni di corruzione.
Libro XX:214 Da parte loro, Costobaro e Saul, raccolsero bande di malviventi; loro stessi erano di stirpe reale e raccolsero favori a motivo della loro parentela con Agrippa, ma erano sfrenati e pronti a spogliare le proprietà dei più deboli. Fu da quel momento, in particolare, che la malattia piombò sulla nostra città e ogni cosa andò scadendo di male in peggio.
Ultime azioni di Albino.
I Leviti e il re Agrippa
Libro XX:215 - 5. Non appena Albino sentì che Gessio Floro stava venendo a succedergli volle farsi un nome come uno che aveva fatto qualcosa per gli abitanti di Gerusalemme. Trasse fuori dalle prigioni quanti, indubbiamente, erano rei di morte, ed era già stata emessa la sentenza; con una valutazione personale, liberò anche quelli che erano stati messi in prigione per motivi di poca entità e per cause accidentali. Così la prigione si svuotò dei prigionieri e la regione si rempì di ribelli.
Libro XX:216 - 6. I Leviti, si tratta di una delle nostre tribù, che cantavano gli inni, persuasero il re a convocare il Sinedrio per concedere loro il permesso di indossare vesti di lino allo stesso modo dei sacerdoti, asserendo che per contraddistinguere il suo regno era conveniente introdurre qualche innovazione che lo avrebbe fatto ricordare.
Libro XX:217 E la loro domanda ebbe fortuna: il re, infatti, con l'assenso di coloro che attendevano al Sinedrio, permise che i cantori degli inni, lasciato l'antico abito, indossassero quello di lino come domandavano.
Libro XX:218 Anche a quella parte della tribù (di Levi) che era impiegata nel servizio del tempio, permise di imparare gli inni a memoria, come aveva domandato. Tutto ciò era contrario alle leggi ancestrali, e una tale trasgressione doveva essere punita.
Compimento del tempio e situazione
degli Operai
Libro XX:219 - 7. Proprio ora era stato completato il tempio. Il popolo vide che gli operai, erano più di diciottomila, non lavoravano e sarebbero rimasti senza paga, perché col lavoro del tempio guadagnavano da vivere; ma per timore dei Romani non volevano tenere del denaro custodito nel deposito.
Libro XX:220 Dunque, oltre alla custodia, scelsero di spendere per gli operai i loro tesori, cosicché anche se ognuno non avesse lavorato più di un'ora al giorno, riceveva subito la ricompensa; spinsero così il re a innalzare il portico orientale.
Libro XX:221 Questo portico era parte del lato esterno del tempio e dava su di una valle profonda; aveva mura di quattrocento cubiti di lunghezza ed era
costruito con pietre quadrate, completamente bianche, ognuna di esse aveva la lunghezza di venti cubiti e sei cubiti di altezza. Questa era un'opera del re Salomone, che per primo eresse tutto il tempio.
Libro XX:222 Il re, al quale Claudio Cesare aveva affidato la cura del tempio, pensava che è sempre facile demolire una struttura, ma difficile erigerne un'altra e ancor più nel caso di questo portico, in quanto il lavoro avrebbe richiesto tempo e notevole quantità di denaro, respinse perciò la loro richiesta, ma non vietò la pavimentazione della città con pietre bianche.
Libro XX:223 Egli rimosse Gesù; figlio di Gamaliel, dall'ufficio di sommo sacerdote, e conferì la carica a Mattia figlio di Teofilo, sotto il quale ebbe inizio la guerra dei Giudei contro i Romani.
Origine e presentazione cronologica
dei sommi sacerdoti
Libro XX:224 - X, I. - Credo necessario e conveniente, in questa storia, dare una narrazione dettagliata del sommo sacerdozio, come ebbe inizio, chi può legittimamente aspirare a questo ufficio e quanti ce ne furono fino al termine della guerra.
Libro XX:225 Si dice che il primo che operò come sommo sacerdote di Dio sia stato Aronne, fratello di Mosè; dopo la sua morte gli succedettero subito i suoi figli. In seguito l'ufficio rimase, in modo permanente, a tutti i suoi discendenti.
Libro XX:226 Donde deriva anche la tradizione che nessuno debba tenere il sommo sacerdozio di Dio se non è del sangue di Aronne, e che nessuno di un altro lignaggio, anche se si trattasse di un re, possa giungere al sommo sacerdozio.
Libro XX:227 Il numero complessivo dei sommi sacerdoti, cominciando da Aronne che, come ho detto, fu il primo, fino a Fanaso, designato sommo sacerdote durante la guerra dal partito rivoluzionario, è ottantatré.
Libro XX:228 Tredici di costoro ebbero l'ufficio del sommo sacerdozio durante il periodo del soggiorno nel deserto nel tempo di Mosè, quando c'era il tabernacolo che Mosè eresse per Dio, fino all'arrivo in Giudea quando Salomone eresse il tempio a Dio.
Libro XX:229 All'inizio mantenevano il sommo sacerdozio per tutta la vita, ma dopo si succedettero mentre ancora vivevano i loro predecessori. Di conseguenza, essendo discendenti dei due figli di Aronne, ricevettero l'ufficio successivamente.
Libro XX:230 La loro prima costituzione fu un'aristocrazia; dopo questa seguì una monarchia; in terzo luogo venne la regola dei re. Il numero degli anni durante i quali tennero l'ufficio i tredici, dal giorno nel quale i nostri padri lasciarono l'Egitto, sotto la guida di Mosè, fino all'erezione del tempio del re Salomone in Gerusalemme, fu di seicentododici.
Libro XX:231 - 2. Dopo questi tredici sommi sacerdoti, altri diciotto tennero il sommo sacerdozio in successione di tempo da Salomone, che fu re in Gerusalemme, fino al tempo in cui Nebukadnezzar, re di Babilonia, guidò il suo esercito contro la città, bruciò il tempio e trasferì la nostra nazione in Babilonia, prendendo prigioniero il sommo sacerdote Josadak.
Libro XX:232 Il periodo coperto dal sommo sacerdozio di questi uomini, fu di quattrocentosettanta anni, sei mesi e dieci giorni; durante questi anni i Giudei erano governati da re.
Libro XX:233 Dopo un periodo di settant'anni di cattività sotto i Babilonesi, Ciro, re dei Persiani, liberò i Giudei da Babilonia e permise loro di ritornare alla loro terra e di riedificare il tempio.
Libro XX:234 In quel periodo Gesù, figlio di Josedek, uno dei prigionieri ritornati, assunse l'ufficio di sommo sacerdote. Egli e i suoi discendenti, quindici in tutto, tennero l'ufficio fino al regno di Antioco Eupatore; e per quattrocentoquattordici anni vissero sotto una forma di governo democratico.
Libro XX:235 - 3. L'Antioco ora menzionato e il generale Lisia, furono i primi a deporre uno dal sommo sacerdozio; questo lo fecero con Onia, soprannominato Menelao; perché lo uccisero a Borea, esclusero suo figlio dalla successione e designarono Jacimo come sommo sacerdote che era della linea di Aronne ma non della stessa famiglia di Onia.
Libro XX:236 Di conseguenza Onia, nipote dell'Onia morto, che portava il nome di suo padre, prese la via dell'Egitto, dove guadagnò l'amicizia di Tolomeo Filopatore e di sua moglie Cleopatra e li indusse a innalzare un tempio a Dio nel nomo di Eliopoli, simile a quello di Gerusalemme, e designarono lui sommo sacerdote.
Libro XX:237 Del tempio eretto in Egitto più volte abbiamo narrato la storia. Intanto Jacimo morì dopo tre anni di pontificato, Non gli succedette nessuno e la città rimase per sette anni senza un sommo sacerdote.
Libro XX:238 Allora i discendenti dei figli di Asmoneo, ai quali era affidata la guida della nazione, dopo la guerra contro di loro, e la loro offensiva contro i Macedoni, ripresero la tradizione designando Gionata sommo sacerdote, e questo tenne l'ufficio per sette anni;
Libro XX:239 e quando fu ucciso con una congiura e un'imboscata tesagli da Trifone, come abbiamo descritto altrove nella precedente narrazione, il sommo sacerdozio fu ottenuto da suo fratello Simone; il
Libro XX:240 quale fu assassinato scaltramente dal genero mentre era a mensa, dopo che aveva tenuto il sommo sacerdozio per un anno più di suo fratello. A lui succedette suo figlio di nome Ircano che tenne l'ufficio per trentuno anni, e morì in tarda età, lasciando la successione a Giuda, detto anche Aristobulo.
Libro XX:241 Giuda morì di malattia, dopo avere tenuto, insieme al regno il sommo sacerdozio per un anno, poiché Giuda tenne sul suo capo il diadema per un anno; fu il primo che tenne i due uffici. Suo erede fu il fratello Alessandro.
Libro XX:242 - 4. Alessandro morì dopo ventisette anni di regno e di sommo sacerdozio, lasciando alla moglie Alessandra la designazione del successore per l'ufficio di sommo sacerdozio. Lei designò sommo sacerdote Ircano e personalmente ritenne il trono per nove anni, dopo morì; il figlio Ircano tenne il sommo sacerdozio per lo stesso periodo.
Libro XX:243 Dopo la morte di lei, Aristobulo, fratello di Ircano, gli fece guerra, lo vinse, lo privò del suo ufficio e diventò sia re che sommo sacerdote della nazione.
Libro XX:244 Dopo che aveva regnato per due anni e tre mesi, venne Pompeo, prese d'assalto la città di Gerusalemme e inviò a Roma in catene sia lui che i suoi figli, diede a Ircano nuovamente il sommo sacerdozio e gli concesse di avere la guida della nazione, vietandogli però di portare il diadema.
Libro XX:245 Ircano governò per ventiquattro anni, oltre i precedenti nove anni. Barzafrane e Pacoro, governatori della Parthia, passato l'Eufrate, fecero
guerra a Ircano e lo catturarono vivo, e posero sul trono Antigono, figlio di Aristobulo;
Libro XX:246 questi governò per tre anni e tre mesi; in seguito a un assedio fu catturato da Sossio ed Erode. Quando fu portato ad Antiochia, fu ucciso da Antonio.
Libro XX:247 - 5. Quando Erode ebbe il regno dai Romani fu abbandonata la prassi di nominare sommi sacerdoti della linea degli Asmonei e, con la sola eccezione di Aristobulo, vennero nominate persone insignificanti che erano semplicemente di discendenza sacerdotale.
Libro XX:248 Erode nominò sommo sacerdote Aristobulo, nipote di Ircano che era stato catturato dai Parti; Erode sposò Mariamme, sorella di Aristobulo, sperando di accattivarsi la benevolenza del popolo, grazie alla loro relazione con Ircano. Ma in seguito, temendo che tutti si volgessero ad Aristobulo, lo mise a morte a Gerico dopo aver meditato di farlo soffocare mentre nuotava, come abbiamo riferito.
Libro XX:249 Dopo la morte di Aristobulo, Erode non affidò più il pontificato a discendenti dei figli di Asmonei. Anche Archelao figlio di Erode, nella designazione dei sommi sacerdoti seguì la stessa politica e, dopo di lui, fecero così anche i Romani quando presero il governo dei Giudei.
Libro XX:250 Il numero di coloro che tennero il sommo sacerdozio dal tempo di Erode fino al giorno in cui Tito prese e incendiò il tempio e la città è di ventotto, coprendo un periodo di centosettanta anni.
Libro XX:251 Alcuni di costoro tennero l’ufficio durante i regni di Erode e di suo figlio Archelao. Dopo la morte di questi re, la costituzione divenne aristocratica e i sommi sacerdoti erano designati alla guida della nazione. E questo basti per quanto riguarda i sommi sacerdoti.
L'amministrazione di Gessio Floro
Libro XX:252 - XI, I. - Gessio Floro, inviato da Nerone quale successore di Albino, portò al colmo le molte disgrazie dei Giudei. Costui era nativo di Clazomene e portò con sé la moglie Cleopatra che quanto a cattiveria non era da meno di lui. Fu sotto l'influsso di lei che egli ottenne il posto in quanto era amica di Poppea, moglie di Nerone.
Libro XX:253 Floro era tanto malvagio e arbitrario nell'esercizio della sua autorità che i Giudei, per la loro estrema miseria, lodavano Albino come un benefattore.
Libro XX:254 Quest'ultimo infatti, teneva nascosta la sua infamia e prendeva precauzioni per non farsi scoprire, ma Gessio Floro, come se fosse stato mandato per fare mostra della sua cattiveria, ostentatamente sfoggiava la sua infamia nel comportamento verso la nostra nazione, non risparmiando alcuna forma di ruberie e di ingiusti castighi.
Libro XX:255 Non conosceva la pietà, nessun guadagno lo saziava, era una persona che ignorava la differenza tra i guadagni più grandi e i più modesti, tanto che si associava persino ai briganti. La maggior parte del popolo seguiva questo arbitrio senza inibizioni, poiché non aveva dubbi sulla impunità purché a lui andasse la parte del bottino a lui spettante. E questo non aveva alcuna misura.
Libro XX:256 I Giudei, infelici, non potevano sopportare la dilapidazione delle loro sostanze fatta dai ladri ed erano tutti costretti ad abbandonare i loro paesi e fuggire altrove, pensando che avrebbero vissuto meglio tra i gentili, non importa dove.
Libro XX:257 Che si può dire di più? Era Floro che ci costringeva alla guerra contro i Romani, perché preferivamo perire insieme piuttosto che a poco a poco. La guerra, infatti, ebbe inizio nel secondo anno dell'amministrazione di Floro e nel ventesimo anno del regno di Nerone.
Libro XX:258 Ma tutto quanto noi fummo costretti a fare, e le sofferenze che abbiamo sopportato si possono conoscere con precisione, da chiunque le voglia leggere, nei libri scritti da me sulla Guerra Giudaica.
Conclusione
Libro XX:259 XII, I. Qui sarà la fine delle mie Antichità che ho fatto precedere dalla mia narrazione sulla Guerra. L'opera presente contiene la storia, dall'inizio della creazione fino all'anno dodicesimo del regno di Nerone, degli eventi che accaddero a noi Giudei in Egitto, in Siria e in Palestina,
Libro XX:260 quanto abbiamo sofferto sotto gli Assiri e i Babilonesi, i duri trattamento ricevuti dai Persiani e dai Macedoni, e dopo dai Romani. Penso, infatti, di averne esposto l'intera storia in modo accurato.
Libro XX:261 Mi sono anche preoccupato di conservare il ricordo della linea dei sommi sacerdoti che hanno servito nello spazio di duemila anni. Ho pure annotato, senza errori, la successione e la condotta dei re, ho riferito le loro imprese, i loro governi; così per quanto concerne il governo dei Giudici, tutto quanto è narrato nella Scrittura Sacra. Questo è quanto ho promesso di fare all'inizio della mia storia.
Libro XX:262 E ora oso affermare con franchezza, ormai che il lavoro è giunto alla fine, che nessun altro, Giudeo o gentile, sarebbe stato capace di questo compito, seppure avesse voluto accingervici, che è una trattazione accurata per il mondo greco.
Libro XX:263 I miei compatrioti riconoscono che nella nostra cultura giudaica io li supero di molto. Mi sono pure affaticato con coraggio nello studio del campo della prosa e poesia greca dopo avere appresa la grammatica greca, sebbene l'uso quotidiano della mia lingua nativa mi abbia impedito di raggiungere la precisione nella pronuncia.
Libro XX:264 Presso di noi non godono grandi favori le persone che sanno le lingue di molte nazioni o adornano il loro stile con la scioltezza della lingua, poiché considerano che tale perizia non solo è comune a qualsiasi uomo libero, ma anche agli schiavi, purché lo vogliano. Presso di loro ha credito soltanto la sapienza, la conoscenza precisa della Legge e la capacità di interpretare il significato della Sacra Scrittura.
Libro XX:265 Di conseguenza, sebbene molti si siano impegnati laboriosamente su questo apprendimento, scarsamente, due o tre, hanno avuto successo, e subito hanno raccolto il frutto maturo delle loro fatiche.
Libro XX:266 Forse al pubblico può apparire antipatico e imbarazzante per me, parlare brevemente delle mie origini e degli eventi della mia vita, mentre sono ancora vivente e possono disapprovare o corroborare le mie affermazioni.
Libro XX:267 Con questo concluderò le mie Antichità, contenute in venti libri e sessantamila linee. A Dio piacendo, in futuro scriverò un racconto scorrevole della guerra e degli ultimi eventi della nostra storia fino a oggi, che appartiene
all'anno tredicesimo del regno di Cesare Domiziano e all'anno cinquantesimosesto della mia vita.
Libro XX:268 E’ ancora mia intenzione comporre un'opera in quattro libri sulle opinioni che, a mio vedere, noi Giudei abbiamo su Dio e sulla Sua essenza, ed anche a proposito delle leggi, cioè perché esse ci permettono certe cose e ce ne vietano altre.